Gentile Enzo Mazza,
dopo aver più volte affrontato sul nostro sito il difficile tema del rapporto in Italia tra streaming, classifiche e certificazioni, ho pensato che, a ridosso della fine di giugno, e quindi in vista degli aggiustamenti promessi semestralmente da FIMI sul metodo di conteggio dello stream, fosse giusto scriverle per manifestare le perplessità, mie e dei miei lettori, sul metodo attualmente impiegato per classifiche e certificazioni.
I conteggi attuali rispecchiano quelli adottati in gran parte del mondo, e tengono conto solo degli stream effettuati con account premium: e questo è un passo in avanti rispetto al recente passato. Ma, al di là di quello che viene fatto in altre nazioni, ogni mercato in ogni paese è un microcosmo a sé stante, e credo che le regole di conteggio debbano sempre essere tarate sul proprio orticello.
Può essere che un giorno lo streaming sostituisca definitivamente il supporto fisico e lo scaricamento dei brani dai digital stores. Al momento, però, esistono ancora sia dischi fisici sia digital download; e questo andrebbe tenuto in considerazione. Ascoltare musica in streaming, anche se a pagamento, non può equivalere all’acquisto di quella musica, così come il prestito di un libro preso da una biblioteca non conta come una copia venduta di quel libro, e un film visto su Netflix non equivale a un film acquistato (in DVD o scaricato a pagamento).
Un altro punto secondo me importante: quando decido di spendere 1,29 € per acquistare un brano o 10 € per comprare un disco, scelgo un preciso artista e la sua musica. Quando pago un account premium 9,99 € al mese, scelgo di poter ascoltare – al costo dell’acquisto di un solo disco – tutta la musica del mondo, e in una modalità di ascolto spesso influenzata dalle playlist di Spotify o degli altri servizi di streaming.
A queste condizioni, 130 ascolti non possono, a mio avviso, equivalere a un acquisto, più per una questione etica e di rispetto degli artisti che per il valore economico in sé.
Un altro dato evidente è che una certa categoria di artisti, ovvero i rapper e, in alcuni casi, i ragazzi provenienti da un talent show sono, per ragioni anagrafiche, avvantaggiati rispetto alla fruizione in streaming. Il pubblico che ascolta il rap è costituito da adolescenti e ragazzi avvezzi all’uso dello streaming, e che solitamente non acquistano musica. Il pubblico che ascolta, per esempio, Laura Pausini ed Ermal Meta, per quanto composto anche da giovani, è meno incline allo streaming, e ancora compera dischi o musica in digitale.
Quanto questo sia vero lo si vede dalle certificazioni che FIMI annuncia ogni lunedì. Ho fatto un conteggio dell’inizio dell’anno a oggi – può essere sbagliato di una o due unità al massimo – e da questo risulta che da inizio 2018 a oggi è stato annunciato un totale di 222 certificazioni a “prodotti” italiani. Di queste, 46 sono per album e 176 per i singoli. Di queste 222 certificazioni, 133 sono andate ad artisti rap/trap/hip hop e 89 ad artisti di musica pop/rock/jazz. Quindi il rap ottiene circa il 60% del totale.
Cosa succede a questo punto? Case discografiche e uffici stampa fanno il proprio lavoro, e quindi arriva, faccio un esempio a caso, il comunicato relativo a Sfera Ebbasta, che ha un album con tre dischi di platino e 10 singoli su 10 certificati. Allo stesso tempo arriva il comunicato relativo a Laura Pausini, che ha un disco di platino per l’album e uno per il singolo, o a Ermal Meta, che ottiene un disco di platino per il singolo e un disco d’oro per l’album. Queste notizie vengono pubblicate: e siccome gran parte del pubblico è meno attento di quel che si pensi ai meccanismi dell’industria discografica, succede che nella percezione della gente Sfera Ebbasta sta facendo sfracelli (il che è peraltro anche vero) mentre al suo confronto l’artista italiana più venduta nel mondo arranca, e l’artista italiano più emerso dell’anno, Ermal Meta, porta a casa risultati appena discreti.
Credo che questo sia sbagliato. Senza nulla voler togliere al rap/trap, non credo sia giusto penalizzare chi i dischi li vende ancora ma è più debole nello streaming per questioni anagrafiche del proprio pubblico, o perché non pubblica ogni giorno una Instagram Stories con scritto “streammate il pezzo“.
Credo davvero che qualcosa vada ancora messo a punto, e a dimostrarlo c’è anche la classifica di vendite FIMI che, escludendo la presenza dei ragazzi (sovraesposti mediaticamente) di Amici, negli ultimi mesi ha visto i dischi pop perdere posizioni per dare spazio a dischi di artisti rap.
Mi sento di ipotizzare e proporre due soluzioni.
La prima: separare le classifiche di vendita da quelle dello streaming, e creare quindi due nuove classifiche settimanali per album e singoli da affiancare a quelle di vendita. Da una parte le vendite reali, dall’altra gli ascolti. Più trasparente di così! E magari rivedendo i parametri anche per le certificazioni, aumentando la quota di streaming equivalente a una vendita.
La seconda: segnalare in modo altrettanto trasparente nella classifica FIMI (e di conseguenza nelle certificazioni) le percentuali del venduto e dello streaming. Idem per le certificazioni (cosa che tra l’altro il nostro sito ha cercato di fare mesi fa), indicando per ogni certificazione le percentuali di copie vendute e di copie ascoltate in streaming che hanno fatto ottenere la certificazione alla canzone o all’album.
Parlo di percentuali nella consapevolezza che difficilmente si arriverà, in Italia, a comunicare le cifre delle copie effettivamente vendute. E’ un comportamento che non comprendo e che non approvo, ma qui stiamo parlando di un cambiamento culturale, non metodologico, quindi evito di dilungarmi sul tema.
Mi piacerebbe conoscere il suo parere su queste due proposte.
Grazie per l’attenzione
Massimiliano Longo