Leon Faun C’era una volta, analizzato dal Prof di latino (ma anche cantautore) Davide Misiano.
“I giovani non sanno più scrivere” è uno degli slogan più diffusi tra i nostalgici.
Da prof e appassionato di canzoni, mi batto da anni per sostenere che non è così: i giovani hanno altre parole, stanno definendo un nuovo linguaggio, creano associazioni di cui non comprendiamo le relazioni segrete perché ignoriamo il codice.
I giovani contaminano, mescolano le carte, mentre a noi piace che le carte siano sempre le stesse.
Io amo immergermi nelle loro “parole nuove”, anche quando appaiono così distanti, perché amo scoprire i bisogni che le hanno originate. E amo pensare che la cultura sia sempre in movimento, sia tenuta a trasformarsi.
In questo percorso di evoluzione cambia tutto: cambia la parola, ma cambiano soprattutto le idee. Cambia l’immaginario di cui si nutre la fantasia.
Per questo oggi vi parlo di Leon Faun, per continuare la mia battaglia in difesa dei giovani. In difesa dei giovani, come lui, che sanno scrivere.
LEON FAUN c’era una volta: RAP FANTASY?
Se volete maggiori informazioni sul percorso discografico dell’artista, dalle sue prime prove al rilascio recente dell’album, cliccate qui.
Apripista in Italia del genere rap fantasy, il ventenne Leòn de la Vallée ci ha abituati finora a un mondo popolato di centauri, chupacabra, demogorgoni, fauni (omaggiati, questi ultimi, nel nome d’arte).
Nel suo storytelling questa dimensione alternativa è il mondo di Mairon: una bolla, una proiezione del pensiero, l’iperuranio sicuro in cui trovare risarcimento da una realtà che si ha fretta di abbandonare. Un luogo della mente, dove prende corpo ogni idea.
In C’era una volta, suo primo album, Leon decide però di chiarire la sua autentica ispirazione e riesce persino a riempire le sue visioni di contenuti più umani e personali.
In questa puntata speciale di Testo & ConTesto intendo ripercorrere con voi l’itinerario tracciato dall’album. Un “viaggio dal cielo alla terra”, con cui il Fauno ha saputo svincolarsi da etichette troppo rigide dimostrando di volersi raccontare.
E voglio tentare di ricostruire le caratteristiche della scrittura di questo promettente artista, che invito prontamente a smentirmi qualora stessi delirando. In ogni caso, fossi in lui, godrei di aver flashato o meglio “maironato” un boomer.
D’altronde, restano sempre quesiti irrisolti quando si finisce di ascoltare Leon Faun. Ma è da lì che nasce il fascino della sua musica: l’esperienza dell’ascolto non è mai completa e va ripetuta. Le stesse frasi possono risuonare in maniera nuova se accolte in momenti diversi e possono essere applicate a tante storie e a tanti vissuti.
Oltre a questo sentimento della parola, ci sono gli incastri metrici che ti fanno sussultare… al punto che dici “Oh Cacchio, non ci avrei mai pensato!”. Ci sono i cambi di flow, di struttura e di mood sonoro, che ti proiettano in mondi ed epoche diversi. E il disco diventa un’esperienza ipnotica, che ti “fotte il cuore”.
Ma partiamo con questa analisi. Cliccate in basso su continua.