Jolanda Renga, Angelina Mango, LDA, Leo Gassmann… Il caso della figlia di Ambra Angiolini e Francesco Renga dà il via ad una riflessione importante da affrontare.
Jolanda, che racconta la disavventura di essersi imbattuta sui social in persone che l’hanno definita brutta nonostante i suoi bellissimi genitori, apre a riflessioni che non si limitano al Bodyshaming, tema che riguarda la società nella sua interezza, ma che portano alla luce la questione di “essere figli di”.
Essere figli di genitori noti in campo artistico, è un peso o un privilegio? È una buona opportunità o può diventare un problema?
Nel caso di Jolanda il problema è a monte: non sei bella come tua mamma o tuo papà e quindi ti massacro che sei brutta (e peraltro è proprio carina!). Non si vuole neanche sapere se questa ragazza voglia prendere la strada del cinema e della televisione come la madre o della musica come il padre. È brutta, secondo gli haters. Tanto basta.
La piccola Renga ha risposto a questi haters (ma non è che il termine giusto è invidiosi?) con molto garbo, con timidezza e ha cercato di difendersi con la sua personalità, con la sua educazione, dando voce ai suoi valori. Stiamo parlando di una ragazza di 18 anni che cerca di giustificarsi e di giustificare i soliti leoni da tastiera e di minimizzare insulti gratuiti e senza senso.
Ma proprio parlando di figli di cantanti, è recente la polemica su Angelina Mango, figlia del compianto Pino Mango e della compagna Laura Valente, voce dei Matia Bazar. La ragazza partecipa al programma televisivo Amici e questo sta sollevando notevoli polemiche perché il cognome che porta non le giova a guadagnarsi un credito personale. In verità Angelina è davvero un fenomeno sia come capacità canore sia come presenza scenica quindi attribuirle la “fortuna”di avere quel cognome per ottenere favori è davvero fuori luogo.
Forse invece, avrebbe più senso discutere sulla sua carriera artistica. Amici è un programma per giovani emergenti e lei proprio emergente non è: ha già all’attivo un album, una casa discografica, collaborazioni con nomi come Tiziano Ferro e ha calcato già diversi palchi, compreso quello del Primo Maggio. Per molti,quindi, non meriterebbe di rubare la scena ad altri talenti, con maggiore bisogno di spazi e visibilità, ma questo non c’entra con il cognome.
Di cognomi pesanti ne abbiamo un lungo elenco: Luca D’Alessio, Leo Gassmann, solo per citare i più chiacchierati al momento per via della loro presenza a Sanremo. Proprio sul profilo instagram di All Music Italia si leggono commenti che li accusano di essere lì e di rubare il posto ad altri solo per il fatto di essere “figli di”. Fermo restando che entrambi hanno diritto a quel posto, il primo per avere all’attivo un disco di platino e uno d’oro, il secondo per avere vinto Sanremo Giovani nel 2020, mi chiedo da dove arrivi tutto questo astio. Non si tratta di frustrazione e di invidia? Penso ancora a Irene Fornaciari, Francesco Rapetti Mogol, Matteo Bocelli, Filippo Graziani e aiutatemi a dire che l’elenco è veramente lungo.
Ovvio che quando ti porti un nome che arriva prima di te, è difficile raggiungere i risultati di chi quel cognome ti ha passato. Lo stesso vale nel cinema e nel teatro. Anche se esempi che infrangono la regola ne abbiamo. Pensiamo a Hollywood: meglio Kirk Douglas o Michael Douglas?
Ma poi quale regola? E perché facciamo i confronti quando parliamo di showbiz e non li facciamo in altri ambiti? Qualcuno ha mai detto ad Alberto Angela che è brutto? O che non supererà mai il padre? Lo ha superato? Importa?
No. E il motivo risiede nel fatto che al nome segue un impegno nello studio che lo ha portato ad una credibilità e ad una reputazione che non gli permettono di temere il confronto. E allora perché ai figli dei cantanti e degli attori non si riconosce lo stesso impegno quando è evidente?
Perché ci si accanisce sminuendoli, apostrofandoli, deridendoli, mettendoli in condizione di fare una fatica atavica per uscire da uno schema mentale che gli altri costruiscono per loro?
È chiaro che quando ci si trova di fronte a “figli di” si possa pensare a raccomandazioni e può anche darsi che sia vero (ci sono anche in campo medico, legale…) ma se sotto non arde una personalità, una individualità, un impegno e un talento vero, per i “cognomi con la camicia” la strada sarà senza uscita. Alla fine il pubblico sceglie cosa piace e cosa no, cosa apprezzare e cosa ignorare, al di là del cognome. Dubito che LDA abbia successo perché è figlio di D’Alessio. Hanno target diversi, pubblico diverso, canali di comunicazione diversi. Il successo di questo ragazzo è tutto suo. E negarglielo con frasi che trasudano stizza ed astio è stupido. Alcuni artisti addirittura scelgono di cambiare il cognome, proprio perché vivono la loro situazione come una condanna e non una opportunità.
E non lo è solo in epoca social ed iperconnessa, in cui le persone, troppe, danno fiato alla bocca.
Per esempio, sapete chi era Stefano Landi? Uno scrittore e drammaturgo italiano della prima metà del 1900. A lui si devono molte opere teatrali,tra le quali Un padre ci vuole, tradotta in ben 4 lingue. Siamo negli anni ’40 (zero social, zero leoni da tastiera!) quando dichiara che la sua famiglia è nido, tana, rifugio, ma insieme gabbia, trappola, prigione.
Non riuscì mai a superare il valore artistico del padre nonostante ci provò scegliendo lo pseudonimo Stefano Landi. Chissà come sarebbe andata se avesse invece mantenuto il suo nome di nascita: Stefano Pirandello, figlio di cotanto Luigi.