Per la rubrica New Generation, quest’oggi siamo felici di avere ospite una donna davvero ricca di talento: si fa chiamare Marianne Mirage, anche se è italianissima e siamo certi che di lei sentirete molto parlare in futuro!
Il motivo? Certamente non è uno solo. Anzi, potremmo dire a buon diritto che sono almeno due, proprio come le passioni più grandi della giovane artista, originaria di Forlì: la musica e il cinema.
Marianne, infatti, è un’attrice: è diplomata al Centro di Cinematografia di Giancarlo Giannini e presto la vedremo ne Il racconto dei racconti, nuovo film di Matteo Garrone di prossima uscita, con Vincent Cassel e Salma Hayek. Ed è una cantautrice e compositrice: scrive in diverse lingue e, nonostante abbia solo 23 anni, il suo è uno stile molto maturo e riconoscibile, in grado di spaziare dal soul all’elettronica e delineatosi nel tempo grazie alla sua intensa passione per la musica jazz e per l’arte, emersa già in tenerissima età.
Prima di leggere la lunga intervista, ascoltate pure il suo primo singolo Come quando fuori piove per Sugar Music, dal videoclip ufficiale ideato e montato dalla stessa Mirage.
Eccoci, Marianne, sei la benvenuta! È da pochi mesi che la Sugar Music ti ha scelta, tra tanti talenti, per andare a ringalluzzire il suo fantastico catalogo di artisti.
Come ti senti? Sei pronta per l’avventura?
Grazie! Mi sento… più che altro coraggiosa: hai detto bene, hanno tantissimi artisti validi e per essere lì insieme con loro, bisogna tirar fuori le unghie, dando prova di ciò che si è (se si è qualcosa) e lavorando seriamente.
In realtà, la cosa bella è proprio che loro ti possono dare un’opportunità di lavoro e gli strumenti, poi l’artista deve venir fuori da solo.
Natale è alle porte e il tuo regalo è già arrivato nelle case di tutti.
Com’è nata la tua Jingle Bell Rock? So che la clip ufficiale del brano è una tua creazione…
Sì, l’idea di partenza è: «Una persona non è mai pronta quando arriva Natale!» Nel video sono seduta a tavola a parlare con un’amica e, a un certo punto, con mia sorpresa lei si trasforma in renna. Così la mia fantasia si sbizzarrisce ancora e la duplica e… mi faccio un “viaggio” sul Natale, fondamentalmente. La scelta dei pattini a doppia rotella (e non dei roller ad esempio), insieme ad altri elementi, richiama gli anni Sessanta e mi sembrava molto in tema.
Riguardo al brano, è nato in pochi giorni, non era “previsto”: in pratica la Sugar Music voleva fare un regalo a tutte le persone che ne sostengono il lavoro giorno per giorno, con questo classico natalizio, così mi è stato proposto e sono stata felice di realizzarne un rifacimento. Per rendere l’idea, Matteo Buzzanca, la persona che lo ha prodotto, ha curato l’arrangiamento in un solo giorno e mezzo, tirando fuori, secondo me, un capolavoro… È stato molto bravo. Anche il video ha preso poco tempo, due giorni: uno per le riprese e l’altro per il montaggio. Ma abbiamo lavorato serenamente, è stata una produzione giocosa e non serviva dedicare più tempo di quello che ci è voluto, lo abbiamo vissuto come un divertissement, una piccola pausa ai lavori del mio primo album.
Hai scelto questo particolare pseudonimo, ma sei italiana e il tuo nome di battesimo è Giovanna. Qual è la sua genesi?
“Marianne Mirage” nasce dall’insieme di due gruppi psichedelici degli Anni Sessanta, si tratta appunto dei Marianne e dei Mirage, li trovo entrambi interessanti, inoltre ho sempre avuto una passione per i 45 giri di psichedelia, per l’esattezza dal ’62 al ’68. Oltre a questo, la M è la mia lettera preferita, la trovo bella sia esteticamente, che come suono.
Ogni artista che entra in Sugar Music, riporta un aneddoto diverso circa l’incontro con Caterina Caselli. Tu cosa ci racconti in proposito? Com’è andato?
Io e Caterina siamo “vicine di casa”: lei è emiliana, io sono romagnola. Mi sono sentita subito a casa, ci siamo un po’ confrontate sulle nostre origini e mi fa piacere che lei si ritrovi nelle mie storie. Ad esempio, mi avevano iscritta al Festival di Castrocaro, ma non sono stata selezionata per la semifinale: in proposito, Caterina mi ha detto di non preoccuparmi, perché era successa anche a lei la stessa cosa!
Ho da parte una domanda legata proprio all’episodio di Castrocaro! Ma prima… Cosa ha detto Caterina su di te? Grazie a quali tuoi pregi, il Casco d’Oro della musica italiana si è convinta ad accoglierti con entusiasmo nella sua ricca scuderia?
Beh, intanto ricordo che, dopo aver firmato il contratto, io dissi a lei: “Io sono una romagnola e ho voglia di lavorare”; mi rispose: “L’importante è quello, senza il lavoro non si ottiene nulla”. Il successo di ogni artista, in effetti, qualunque cosa faccia, deriva dal lavoro, dal tempo investito nella sua arte.
Il provino è stato molto semplice, chitarra e voce, “alla vecchia”: ho cantato i miei brani, in diverse lingue. Credo che lei abbia apprezzato… non posso dire le canzoni, perché un brano può cambiare e vivere mille vicissitudini… Credo che possa aver apprezzato più che altro la produttività, il fatto che una persona si spenda dalla mattina alla sera per raggiungere l’obiettivo. O forse il modo, sai. Non la qualità, ma il modo di affrontare le cose. Non lo so… Magari l’onestà… non me lo so spiegare, come si può dire. (ride, ndr)
Il singolo con cui hai finalmente debuttato in radio il 29 agosto, si intitola “Come quando fuori piove” ed è stato prodotto da Fausto Cogliati (Fedez, Articolo 31, J-Ax). Com’è nato? Ne sei la protagonista?
In realtà, io non sono la protagonista, è la storia di qualcun altro: si tratta di una mia amica che non riesco mai a vedere, perché proprio non esce di casa. Da un lato le piace starsene lì da sola, dall’altro ne soffre.
Sì, forse per certi aspetti, un po’ mi ritrovo in lei. Il brano è nato proprio così, in modo spontaneo chitarra e voce: non è stato nemmeno perfezionato più di tanto, aveva già un suo “sapore” e non volevo lo perdesse con ulteriori elaborazioni. È rimasto un po’ selvatico. Lo so, magari non è proprio il brano pop radiofonico che ti rimane in testa dopo il primo ascolto, e mi rendo conto che non è un pezzo allegro, data la malinconia di fondo, ma quella era la sua identità, non ho voluto trasformarlo in qualcos’altro… anche perché sono dell’idea che, se devi sempre trasformare le cose, a quel punto è meglio che ne scrivi direttamente di nuove.
Il leitmotiv del pezzo è proprio l’attesa; nel bridge che anticipa l’ultimo ritornello, canti: “Ora dopo ora che passa, son sola che aspetto solo te, ma forse è perché come ogni sera resto sola con me”. Quindi con queste parole, la protagonista della canzone ammette che la scelta di attendere è solo sua, visto che potrebbe uscire o fare altro?
Sì sì, potrebbe, assolutamente. A volte combattiamo con la nostra volontà, che di solito è quella che ci fa fare gli errori più grandi. L’idea è un po’ questa: essere vittime di se stessi e voler cambiare, pur non sapendo bene come si fa e quando sia il momento propizio.
Mi capita di scrivere brani “per gli altri”, in cui impersonifico persone che conosco realmente nella vita. Sarà forse il mio background che mi induce a questo, visto che ho fatto molto esercizio da attrice: allora può succedere che io pensi a lungo a una mia amica, come in questo caso, e magari mi vengano fuori parole che direbbe lei, non io.
Hai curato la realizzazione della clip ufficiale di Come quando fuori piove e in vero, non è la prima che ti diletti nell’arte del videomaking. A cosa ti sei ispirata? Ho notato una particolare attenzione alla scelta delle cromie, pare ti piacciano i colori freddi…
Sì, devo dire che questo videoclip ha una color abbastanza aggressiva, quasi rosa shocking. Mi sto cimentando nei video da poco, grazie a Sugar, non l’avevo fatto prima e mi piace molto: ho iniziato con l’app di Instagram, è partito tutto da lì e infatti, le clip di L’amore non c’era adesso c’è e Boum hanno proprio i “tagli” di Instagram!
Poi ho comprato Final Cut, con cui ho realizzato il video di Come quando fuori piove: l’ho curato da sola, dal girato alla color… a tutto. Per quanto riguarda l’ispirazione, lo sento legato agli Anni Settanta: c’è questo loop di chitarra molto morbido, col “U I A, U I E” quasi fosse un mantra, un po’ 70’s… Però dall’altra parte c’è lei, che è in casa da sola! Perciò, come nelle scene morbose Anni Settanta in cui ti aspetti sempre qualcosa ma non succede nulla, nel mio videoclip regna la sospensione, l’attesa. Mi rendo conto che non è facile intuire questa mia precisa scelta stilistica, ma l’ho voluto fare in questo modo: è un filmato molto morbido, in cui con un po’ d’attenzione si intuisce l’ispirazione al mondo cinematografico americano e, al contempo, alla nostra tradizione italiana, basti pensare a Monica Vitti e a Michelangelo Antonioni… Anzi a dirla tutta, gli americani sono arrivati dopo, noi questo stile lo avevamo già inventato.
Sono tue creazioni anche i videoclip di Boum (tua cover di Charles Trenet) e di L’amore non c’era adesso c’è (inedito): in una vecchia intervista hai svelato l’arcano per così dire, spiegando di esserti trasferita a Milano per frequentare il Centro Sperimentale di Cinematografia di Giancarlo Giannini, ancor prima del contratto con Sugar Music, e di essere una grande appassionata di cinema…
Certo, ci tengo a precisare che ho frequentato lì come attrice, non come regista, però sì, mi appassiona questo mondo con le sue sfaccettature. Come regia, in vero non ho alcun tipo di formazione e sono tantissime le tecniche da imparare, ma mi piace molto l’estetica… Parliamo delle immagini, ecco.
Com’è nata questa attitudine? Sembri avere una certa maturità, forse è una cosa che porti avanti da tempo…
No no, assolutamente. Diciamo che da piccolina ho avuto la fortuna di fare molti viaggi (Berlino, Londra, Parigi…): tenevo sempre con me la Canon e il computer. Ricordo che mi piaceva fotografare le persone in giro, girare piccoli video e poi riguardarli da sola. Era un bel diletto, ma non c’era niente di più, non avevo alcuna ambizione particolare in quel senso lì. È un’attitudine venuta fuori un po’ spontaneamente, nell’ultimo periodo.
Sei laureata in Lettere e Filosofia, hai esperienze nel cinema e nel teatro, conosci e scrivi in diverse lingue, pur avendo solo 23 anni. Ora, cosa pensi di chi, nel mondo della musica che conta, intende trovare il suo posto al sole come te, ma improvvisandosi, e non avendo cioè i mezzi e la formazione tali da poter davvero dire qualcosa di importante e di originale?
Allora, diciamo questo: io non ho la pretesa di sapere le cose, anche perché bisogna conoscerne talmente tante che una persona non smette mai di imparare e arricchirsi; in più, non è detto che imparando una cosa, quella poi ti torni utile.
Ti porto l’esempio della grande St. Vincent, cantautrice e compositrice statunitense: sono stata pochi giorni fa a un suo concerto. Leggevo in internet alcune interviste e sulla sua pagina di Wikipedia, ho scoperto che dopo aver frequentato per tre anni il Berklee College Music (il più importante istituto universitario privato del mondo dedicato alla musica contemporanea!), ha deciso di abbandonarlo, dichiarando: «Le cose che possono insegnarti lì sono quantificabili. Penso che tutto questo sia un bene e che abbia un perché, ma a un certo punto devi imparare tutto ciò che puoi, per poi dimenticarlo se vuoi davvero iniziare a fare musica.» Alla fine anche i rapper insegnano, non è che devi aver fatto una scuola: l’importante è essere una persona seria, che prende davvero a cuore quello che sta facendo, investendo il proprio tempo e tutto l’ impegno.
Più che lo studio e il nozionismo, penso che possa essere d’aiuto ai propri talenti e magari fare la differenza, il fatto di aver maturato esperienza: quella conta molto. Io mi ricordo che a 16 anni avevo bisogno di andarmene via, in quel momento in Irlanda a Dublino, a suonare per strada con la mia chitarra. Per me la ricerca era andare fuori, non restare a casa a cantare. Quando la Sugar mi ha fatto il contratto, per me è stato sorprendente, non avevo mai sognato di essere in una casa discografica, tantomeno ne conoscevo le dinamiche: ho imparato tutto in corsa.
Ci parli un po’ della tua infanzia? Hai sempre nutrito la passione per la musica?
La musica è stata una compagna di viaggio, fedele, presente: non la sentivo come un’ambizione personale, la vivevo semplicemente, dentro e fuori di me… qualcosa di organico.
Sono nata a Forlì, ma sono cresciuta con i miei genitori un po’ in città e un po’ in giro per il mondo, dal momento che mio padre era velista, oltre che pittore: con la sua barca a vela, abbiamo traversato insieme il Mar Ionio, l’Adriatico, il Mediterraneo. Ho passato un’infanzia molto spensierata, un po’ in solitudine: ero una bambina che giocava molto da sola… M’è sempre piaciuto giocare da sola e fare i viaggi! (ride, ndr) Già da piccola viaggiavo tanto, anche con la mente.
Parlavamo prima di questa tuo grande amore per il cinema. Nel 2008, nel film Monkey Boy di Antonio Monti, vesti i panni di Agata, una ragazza autistica; non contenta, hai anche firmato la colonna sonora del lungometraggio.
Voglio chiederti, com’è stato calarsi in quel ruolo?
È stato complesso. Devo dire che mia mamma fa la fisioterapista per i bambini, per cui già con lei avevo un po’ studiato il carattere dell’autismo, anche perché lei ha tenuto proprio delle classi sull’argomento. Poi, andai un mese in una casa di cura per l’autismo, ne studiai i comportamenti a stretto contatto coi pazienti… Ho passato quei tre mesi di girata di video abbastanza… “brutti”, non è che chiudi dopo aver fatto quelle tre ore che giri, torni a casa e ti senti felice, inoltre quel mood ti conviene tenerlo sempre vicino, perché così non perdi mai la concentrazione su quello che stai facendo.
Sai, mi sto rendendo conto sempre di più che, mettendo per un momento da parte l’autismo, forse ho proprio bisogno di mettere a fuoco certe parti non abbastanza vissute di me e, di conseguenza, di interpretare certi personaggi impegnativi, ma belli: è proprio uno sfogo, quello che non posso portare nella vita quotidiana, lo porto lì. Mi piacerebbe trovare un altro ruolo come quello di Agata.
All Music Italia ha pescato sulla piattaforma Vimeo un cortometraggio, Qualche volta di notte 2012, che tu hai realizzato un paio d’anni fa con l’artista Silvia Camporesi: un omaggio alle sceneggiature di Michelangelo Antonioni, che citavi poc’anzi.
Te ne ricordi?
Certo che sì… Urca, mi avete studiata alla perfezione! Stimo tanto Silvia Camporesi, è stata molto gentile con me: s’è svolto tutto in una giornata, non c’era stata una preparazione prima. Abbiamo respirato l’aria del teatro e abbiam detto: “Vediamo quello che ci portano questi suoni”, perché in sottofondo c’erano appunto dei suoni presi dai campioni utilizzati da Antonioni, artista che adoro e conosco bene, anche se passare a interpretarne le idee è tutt’altra faccenda. Ovviamente non ci sono riuscita (nonostante la parrucca!), ma va bene, e poi è stato un omaggio, non una simulazione.
Continuerai a fare cinema parallelamente alla carriera di cantautrice? E se fossi costretta a fare una scelta fra le due arti, a quale rinunceresti?
…Che detta così sembra una gufata! (ride, ndr) Fortuna che non sono scaramantica! Scherzi a parte, sicuramente non vorrei scegliere, desidero coltivarle entrambe: come ti dicevo, riguardo al cinema, spero di poter avere nuovi ruoli importanti e impegnativi, per potermi misurare con essi e così continuare a crescere. Ovviamente la musica resta la cosa principale, nel canto c’è qualcosa che mi libera e mi fa stare meglio: pensa che quando ho mal di testa e canto, dopo poco mi passa! La musica per me è curativa, non posso farne a meno.
E torniamo dunque alla tua musica, che è l’argomento principe. Nella composizione sei poliglotta: durante il provino in Sugar Music, hai eseguito i circa 60 brani che al momento avevi da parte, in inglese, francese, italiano e portoghese!
Si tratta di una precisa scelta stilistica o i brani vengono fuori naturalmente in lingue diverse? Qual è quella in cui pensi di riuscire meglio?
Sì, in realtà la mia produzione in italiano è arrivata per ultima, perché ho iniziato con l’inglese, subito dopo col francese: è stato un percorso a ritroso, ti dirò che al momento del provino io avevo un paio di pezzi in italiano, non di più, la stragrande parte era in inglese. Da lì è partita la mia ricerca nel trovare le parole giuste in italiano, nel partorire un mio vocabolario stilistico e interpretativo, perché ogni artista ha il suo: ancora non ne sono arrivata a capo, perché ci vogliono tempo e molta cura. Sarà la mia sfida più grande: la devo a voi e a chi mi segue, alla mia casa discografica che crede nelle mie potenzialità, e a me stessa.
Riguardo all’inglese, si dice che tutto suoni meglio in questa lingua, ma non ne sono così convinta, non credo sia esattamente così: sicuramente è una lingua più semplice, sotto molti aspetti, pertanto ti permette di avere più groove, più ritmo. In effetti, questa aderisce maggiormente alla mia musica, più ritmica che melodica; e anche il francese in realtà è una lingua tronca (Marianne intona due versi in francese, ndr), metricamente non è così difficile trovare un punto d’incontro, anzi.
In tutti i modi, non guardo tanto alla lingua in cui riesco meglio, forse potrei dirti quella in cui mi sento più a mio agio: spesso mi dicono che in francese sono molto credibile e che ho l’attitudine giusta, eppure quando canto in inglese riesco a emozionarmi di più!
Hai un tuo posto prediletto dove componi?
La mia vecchia cameretta! (ride, ndr) Ogni volta che torno a casa, succede sempre qualcosa lì dentro: forse è perché ci sono proprio dei punti geospaziali che sono dei punti di “ritrovo” e che mi smuovono qualcosa dentro, non lo so… Sicuramente ci ho passato molto tempo. Però devo dire un’altra cosa – questa è una mega confessione, non mi prendete in giro – se c’è un’altra cosa che mi fa rilassare al punto da chiudere le valvole del pensiero, quello rigido, per lasciar partire il pensiero libero, che ti fa fluttuare nel vuoto, questa cosa è l’acqua. L’acqua”barra” i pesci… però i pesci di taglia piccola!
Quindi hai un acquario a casa?
Eh no, non posso, in compenso ho comperato una lampada a lava, sai di quelle Anni Sessanta a forma di missile: so che non è la stessa cosa, ma mi piace osservarla, con le sue bolle simula un po’ il movimento dei pesci. Qui vicino a Milano, a Parco Sempione, fortunatamente c’è l’acquario, dove io ci passo praticamente metà giornata. (ride, ndr)
Come quando fuori piove anticipa il tuo EP d’esordio. Puoi svelarci qualcosa?
È ancora un cantiere aperto, stiamo lavorando sodo e ci sono già dei provini, ma è ancora presto per definire la tracklist finita. Ti posso dire che sicuramente Come quando fuori piove non sarà l’unico singolo e che presto uscirà un nuovo brano, che mi piace molto, ma… non vi svelo nulla, sta per arrivare!
Riguardo al lavoro in studio di registrazione?
Stiamo lavorando tanto. Come dire, è giusto… fare la cosa giusta!
La Sugar sta valutando fin dove si può andare a prendere: ne sono molto contenta, la mia casa discografica, l’ “azienda” per cui lavoro, fa ricerca. Non conosco le altre discografiche, però la signora Caselli fa questo ed è un modo molto interessante di lavorare.
E forse, nell’album, ascolteremo la versione studio del tuo inedito Weeds, che hai eseguito in un live unplugged, per Onstage Magazine.
Pensa che Weeds l’ho scritta a 16 anni, è la canzone più vecchia che ho in repertorio. In effetti l’ho eseguita con piacere chitarra e voce in quell’occasione e mi piacerebbe che uscisse, ma ancora non ci sono certezze a riguardo.
Ascolta, a quale ricordo è legata la cover di Boum, classico del cantautore francese Charles Trenet?
In casa mia si cucinava il ragù e la prima immagine che mi viene in mente è questa, anzi ti posso dire che per me le canzoni in francese hanno tutte la forma della casa, hanno un’aura domestica: ascoltavo Juliette Gréco, Yves Montand (lui in realtà era di Trieste!), poi i romagnoli sono quasi provenzali per le loro tradizioni culinarie. Mi è sempre piaciuto il carattere di certi cantanti francesi, le loro spalle dritte, la loro mano che descrive tutto… Ma questo vale forse proprio per gli artisti francesi tutti: a volte a noi italiani possono risultare presuntuosi, invece hanno un grande modo di raccontare e ci hanno insegnato molto in questo sento, vedi l’esempio di Fabrizio De Andrè. Possiamo solo prendere da quella tradizione, anziché allontanarcene.
In più, quando penso a Boum, mi viene in mente anche un altro classico di Charles Trenet, La Mer, colonna sonora nel film The Dreamers di Bernardo Bertolucci.
Ti dico una curiosità: la più grande soddisfazione che è arrivata da quella cover, è stata che gli editori francesi, di Parigi, hanno mandato in Sugar per me lo spartito originale di Boum del 1938, dicendomi che la mia versione gli era piaciuta tanto e invitandomi ad andare a trovarli, lì a Parigi… una cosa stupenda! Poi a me piacciono tanto quelle cose “materiali” che puoi conservare e alle quali puoi assegnare tu il valore che hanno per te. Beh, con questo, certamente, lo spartito un suo valore intrinseco già ce l’ha, ma è molto più grande quello che gli attribuisco io!
Abbiamo già nominato il Festival di Castrocaro. In un articolo su Rockol, Franco Zanetti parla di te e, riguardo alla tua poco soddisfacente avventura a Castrocaro, riferisce del «tizio potente che governa le giurie esterne, che non capisce di avere davanti a sé un (potenziale) fenomeno», non facendoti approdare in finale.
Marianne, quanti danni fanno a volte i concorsi o, similmente, i talent show?
Sì, diciamo che quando ci si iscrive a queste manifestazioni, bisogna mettere in conto che è una gara: non stai cantando solo per te e per un pubblico che è venuto appositamente ad ascoltarti, ma principalmente per delle persone chiamate a giudicarti. Inoltre, come ti dicevo, mi aveva iscritta un mio amico, non era esattamente ciò che volevo fare e non mi ci ero mai neanche messa con la testa in una cosa di questo genere.
Però è stato utile partecipare, mi ha permesso di capire alcuni miei difetti e il fatto che, ad esempio, avrei potuto migliorare la mia tenuta vocale; ma credo che se si presta attenzione a se stessi e si lavora con l’intenzione di migliorarsi, qualunque occasione in cui si suona, anche davanti a una sola persona, porti i suoi frutti. L’atteggiamento di chi dice: “non mi hanno capito”, “non mi hanno ascoltato”, è sbagliato in ogni caso, perché un artista le cose se le deve sempre guadagnare, ecco.
Hai aperto i concerti di Raphael Gualazzi, Tiromancino, Patty Pravo, Arisa.
Dai l’idea di essere una donna solitaria: ti senti a tuo agio dal vivo, nello scambio col pubblico? Quali ricordi porti dentro di queste prime grandi esperienze?
Assolutamente, mi sento a mio agio, quello è l’apice secondo me: stare sul palco è la parte più bella del mio lavoro, succede ogni volta qualcosa che… non lo sai neanche tu! Poi non sei tu artista, ma è la gente che crea il concerto: quello è l’Inaspettato.
Il ricordo più bello è con Raphael Gualazzi, che oltre a essere un grandissimo artista, è una persona fantastica. È stato molto gentile con me: a Roma, mi ha fatto fare un brano insieme con lui!
E stai già iniziando a immaginare come sarà il tuo live? All’apertura di Patty Pravo avevi un vestito assurdo…
Ahahah, in realtà quello è un vestito da sposa Anni Sessanta, l’ho comprato al mercatino! Particolare, no? Ha questo spacco, poi le forme molto ampie…
Sai, mi piacerebbe creare dei “momenti” sul palco, non vorrei fare il karaoke per dire… Mi immagino un live quanto più organico possibile, in cui avvengono dei cambi, io e il pubblico possiamo respirare, ma niente è slegato.
Avete deciso, col gruppo Sugar, se tentare la carta Sanremo in futuro?
Vedremo, non rifiuto assolutamente nulla, anzi penso sia un’ottima opportunità. Io sono molto affezionata ai simboli e Sanremo È un simbolo: su quel palco è passata tanta angoscia, tanta felicità, tanto sforzo, grandi artisti… mi farebbe piacere insomma, ne riconosco il valore.
Domanda finale. Il tuo stile è molto sofisticato, così come la tua scrittura: prometti solennemente che lo conserverai puro e selvaggio, senza piegarlo a logica di mercato alcuna?
Ahahah, dunque, com’è? “Prometto di servire…” (ride di gusto, ndr) Guarda, hai ragione a chiedermelo, ma ti dico, sai chi manterrà veramente questa promessa? La Sugar!
Stanno lottando per far venir fuori il massimo di quello che sono, dopodiché non dev’essere il pubblico che deve capirmi, ma sono io che devo impegnarmi con questa finalità. Bisogna trovare il modo giusto: si può essere un po’ sofisticati, ma restando diretti e onesti.
…E comunque, te lo prometto!
Questa è fuori intervista: conosci il nostro giochino “Rompi-disco”?
Ahia, a dire il vero no, non sono informata come te, accidenti!
Nessun problema! È un gioco simpatico che facciamo per salutarci con l’artista che abbiam appena finito di intervistare. Ora ti proporrò delle coppie e tu dovrai dirmi a quale dei due nomi rompi il disco, salvando quello dell’altro. Ovviamente stiamo giocando, qui non ci sono bocciature.
Ah ecco, una roba tipo i giochi romani! D’accordo, chi mi metti?
Prima coppia… A chi rompi il disco: Levante o Francesca Michielin?
Salvo Levante, quindi lo rompo Francesca Michielin.
Carmen Consoli o Meg?
Oh, Meg è una grandissima! Lo devo rompere a Carmen Consoli.
Mina o Patty Pravo?
Rompo Mina e prendo Patty Pravo.
Bjork o Amanda Palmer?
Salvo Bjork, quindi Amanda Palmer.
Lana Del Rey o Annie Lennox?
Annie Lennox!
Skin o Christina Aguilera?
Christina Aguilera. Skin tutta la vita! Anche solo per il nome! Ahahah scherzo…
Camille o Zaz?
Lo rompo a Camille.
Queens of the Stone Age o Placebo?
Placebo.