A pochi giorni dall’uscita del suo nuovo concept album, “Tu cosa vedi quando chiudi gli occhi” (qui la guida all’ascolto), abbiamo incontrato Michele Bravi, che ci ha parlato della genesi di questo suo nuovo progetto, che affonda le proprie radici negli scritti di Oliver Sacks, ma anche dell’umorismo italiano e del malumore francese.
Il cantautore ci ha inoltre dato qualche piccola anticipazione sulle due speciali anteprime che il 12 e il 26 maggio lo vedranno esibirsi al Teatro Dal Verme di Milano e all’Auditorium Parco della Musica (sala Sinopoli) di Roma.
“TU COSA VEDI QUANDO CHIUDI GLI OCCHI”, INTERVISTA A MICHELE BRAVI
Quando si pensa all’atto di chiudere gli occhi, spesso vi si associa il concetto di buio. E in questo buio, come canti nel tuo precedente album, è possibile orientarsi. Ma forse non è poi così buio l’universo che si cela dietro due palpebre chiuse…
Quella è una visione semplicistica. Quando si chiudono gli occhi si pensa al buio o al sonno. Ma, in realtà, esiste un fenomeno scientifico che si chiama palinopsia, secondo il quale l’immagine che si sta osservando in un preciso momento rimane impressa dentro la palpebra per una frazione di secondo, magari con contorni e colori diversi.
Quel momento per me è stato un grande punto interrogativo, da cui poi è partita tutta la ricerca del disco. Mi sono infatti chiesto che cosa si imprime dentro di noi di tutto il reale che abbiamo intorno, che cosa vedono gli altri quando vivono una storia. Ho così iniziato un’indagine sull’immaginazione.
Ognuno di noi ha una vita interiore in cui c’è una colonna sonora, un film e un colore costante, che ho cercato di celebrare con questo album, in cui racconto qual è la mia colonna sonora, il mio film e il mio quadro. “Tu cosa vedi quando chiudi gli occhi” vuole però essere anche un invito affinché ognuno possa tirar fuori la propria colonna sonora, il proprio film.
Arriviamo così al tuo nuovo album di inediti, “Tu cosa vedi quando chiudi gli occhi”. Ci racconti com’è nata l’idea di dividerlo in tre diversi capitoli musicali: lo sguardo, l’immagine e l’iride?
In questo disco l’occhio è una scusa letteraria, un ponte tra quello che c’è fuori e quello che abbiamo dentro. Parlo dunque di sguardo, di immagine e di iride perché, in qualche modo, vuoi anche per tradizione letteraria, siamo abituati a pensare che l’occhio sia lo specchio della vita interiore. Hai presente quando si dice: “Ti si legge negli occhi quella cosa lì“? Tu in realtà non stai dicendo nulla, però “ti si legge negli occhi” che sei felice, annoiata, innamorata…
I tre diversi capitoli musicali di “Tu cosa vedi quando chiudi gli occhi” rappresentano tre diversi livelli di introspezione. Lo sguardo è quello che noi vediamo del mondo. L’immagine è quello che stiamo effettivamente vedendo. L’iride, infine, è una sorta di impronta digitale, la cosa più umana, intima, personale ed esclusiva che abbiamo. Pian piano, è come se ci fosse uno zoom sempre più grande per poi entrare all’interno dell’occhio.
In questo processo di introspezione, cosa hai scoperto di Michele?
Ho scoperto che c’è un modo di pensare poetico, che mi piace tantissimo. Sono tanto orgoglioso della mia visione creativa. Tante volte mi ha allontanato dal mondo, perché pensavo fosse strano che io vedessi e sentissi quelle cose. Invece, è un’esclusività, che adesso mi piace raccontare. Se, quando ero a scuola, era il motivo per cui mi isolavo e mi isolavano, ora è la visione che mi permette di incontrare un pubblico, di dire: “Io il mondo lo vedo così. Voi?”. È una cosa che mi affascina tantissimo.
E, a proposito di incontri, domenica 14 aprile inizierà l’Instore Tour…
È bello tornare a fare gli instore dopo tanto tempo. Quando è uscito “La geografia del buio” eravamo in piena pandemia ed era impossibile pensare di organizzare delle date in giro per l’Italia. Sono passati ormai tanti anni dal mio ultimo instore e mi rendo conto che è tutt’altra cosa rispetto ai live. Si tratta di due esperienze completamente diverse.
Ad un concerto incontri chi ha voglia di esprimere, vivere ed esperire la musica dal vivo. Gli instore, invece, ti permettono di incontrare gli ascoltatori, che sono i cultori dell’opera, coloro che spendono dei soldi per capire che cosa hai fatto nel tuo progetto. È bello tornare a tutto questo!
Nella cover di “Tu cosa vedi quando chiudi gli occhi” la pittura incontra la fotografia, che a sua volta incontra la musica.
La fortuna è di aver collaborato per tutta la parte estetica del disco con Mauro Balletti, che ha realizzato le cover più iconiche di Mina. Il fatto di poterlo incontrare in questo disco è incredibile. Spero si possa cogliere il grande rispetto che ho nei confronti di chi spende tempo e soldi per il mio lavoro, perché non è né scontato né dovuto.
Quando compri un disco, tu compri un’esperienza ed io ci tengo sempre che quell’esperienza sia completamente a fuoco. Poi, magari, non sempre ci riesco. Però, l’intenzione c’è ed è molto solida.
Cosa hai trovato di così affascinante negli scritti di Oliver Sacks tanto da trarne ispirazione per la stesura di questo tuo nuovo concept album?
Di base, la sua narrazione è estremamente umana, romantica e filosofica. Attraverso i suoi scritti ho scoperto che esistono dei casi in cui alcune persone vivono il reale in maniera diversa da come lo viviamo noi tradizionalmente. Questo ovviamente è dovuto a deficit cerebrali di diversa entità.
Al di là di questo, trovo che il fatto di percepire le cose diversamente abbia un significato filosofico potentissimo, perché – in realtà – è una cosa che applichiamo a tutto. Se guardo una candela, io la vedo in un modo. Chi mi dice che tu la stai vedendo nello stesso modo in cui la vedo io? Il mio modo di vedere le cose è diverso dal tuo, perché è influenzato da quello che ho visto ed esperito in passato. Quindi, non potremo mai sapere se vediamo la stessa cosa o meno.
È questo che mi ha affascinato e poi ispirato delle opere di Sacks. Da una parte c’è una solitudine di esperire il mondo, dall’altra la curiosità di capire le altre solitudini che cosa vedono.
Tu hai dichiarato: “Ogni canzone nasce da un gioco di immaginazione”. E allora ti chiederei di usare ancora una volta l’immaginazione per completare questa frase: “Immagina se…”
Immagina se fossimo in una commedia italiana, che cosa succederebbe? Oppure, immagina se si potesse viaggiare nel tempo. O ancora, immagina cosa succederebbe se le leggi dell’universo fossero tabelline con cui si può giocare.
Ecco, “Tu cosa vedi quando chiudi gli occhi” è un gioco dell’assurdo. D’altronde, l’immaginazione parla sempre con la lingua dell’assurdo. In questo disco ho provato a dare delle risposte, che sono più o meno fantasiose, più o meno credibili, più o meno reali, ma sono le mie risposte.
Nella seconda traccia dell’album tu canti: “Mi sono innamorato di te quando eri triste, quando la grana dei difetti era evidente”.
Custodire la tristezza di qualcuno è una grande possibilità per innamorarsi. Tu stai con la persona di cui accetti la parte brutta. Le altre non le frequenti. La persona che ami accetti che abbia delle spigolosità. Quindi, per me è inevitabile che il momento dell’innamoramento coincida con il momento in cui io ho la visione più umana della persona che ho davanti e questo accade quando mi racconta anche la sua tristezza.
In questa traccia, così come in “Se ci guardassero da fuori”, c’è un’empatica delicatezza, un andare incontro, un tendere la mano, che ti porta a chiedere alla persona che hai accanto: “Cosa vuoi che io di te non veda?”.
La verità è che decidiamo di filtrare le informazioni. Se fossimo veramente attenti a quello che abbiamo davanti, la storia di una persona gliela leggeremmo addosso. Non c’è bisogno di chiedere. Laddove vuoi posare l’attenzione, non hai bisogno di racconti, perché quella storia la vedi succedere davanti a te, te la porti addosso.
Ci sono delle parti di noi che ovviamente non vogliamo far vedere a nessuno, nemmeno alla persona che più ci ama al mondo. Non possiamo però negargliele alla vista. Ciò che possiamo fare è chiedergli di fingere di non vederle, che è un modo per custodirle, molto più profondo di quello che si pensa.
Continuando questo nostro viaggio, l’Umorismo Italiano incontra e si scontra con il Malumore Francese. Ma sul ring non ci sono né vincitori né vinti…
È un gioco di clichés, di caricature. Il grottesco, per me, è una grandissima forma di intimità, perché ha come presupposto una conoscenza profonda dell’intelligenza e dell’anima di cui si sta scherzando. A quel punto, diventa un gioco.
A me piace l’idea di giocare un po’ con questo contrasto. Gli italiani sono un popolo rumoroso, che gesticola con le mani ed è abituato alla comicità bassa, infantile. I francesi, invece, sono un popolo turbato dall’emotività. Chiaramente, si tratta di clichés che hanno poco a che fare con la quotidianità di un popolo.
Mi incuriosisce però sapere perché da fuori sono stati colti questi aspetti, che sono stati poi estremizzati, piuttosto che altri. Questa, per me, è una curiosità da approfondire.
Cosa ha apportato Carla Bruni a “Malumore francese“?
Carla ha apportato alla canzone un’eleganza vocale incredibile. Lei ha un setosità vocale che io non ho mai riscontrato in altre persone. Ci tenevo ad avere proprio la sua timbrica, il suo soffio, la sua voce.
Imprimere la propria voce nella canzone di qualcun altro è come prestare un po’ di te stesso ad un racconto e quel racconto io non l’avrei saputo fare così bene con la mia voce, perché non ho quella vibrazione, quella frequenza. Il fatto che lei abbia deciso di partecipare, per me, è un atto di generosità importantissimo.
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