10 Marzo 2017
di Scrittore
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10 Marzo 2017

RECENSIONE:
TERRA – LE LUCI DELLA CENTRALE ELETTRICA

E´uscito il nuovo disco di Vasco Brondi. "Terra" segna il ritorno de Le Luci della centrale elettrica. Ecco la recensione

le luci della centrale elettrica
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Vasco Brondi è qualcosa di diverso, lo è stato sin dall’inizio e, se Dio lo vorrà, lo resterà finché campa. Cantautore lontano dall’immaginario tanto del songwriter classico quanto dei barbuti hipster che oggi vanno di gran moda, distante da tutta la scena alternativa e dal suo contrario, è uno che ha sempre e solo fatto quello che gli andava come pareva a lui. E nel suo percorso, nelle sue fotografie surrealiste delle inquietudini degli anni zero, nel suo modo personale di essere punk, è cresciuto diventando punto di riferimento per tanti giovani musicisti dall’ispirazione ‘altra’ e spina nel culo per quelli che quel suo modo diverso di fare le cose non l’hanno mai digerito.

Personalmente ho sempre tifato per i primi, avendo amato profondamente i primi due dischi di Brondi (Canzoni da spiaggia deturpata e Per ora noi la chiameremo felicità), a cui riconosco un’abilità di scrittura degna di un Jim Carroll con una New York in meno e una Romagna in più, un Lindo Ferretti libero da tutti i suoi dogmi presenti e passati, un Rino Gaetano meno scanzonato e più acido.
Il suo terzo lavoro (Costellazioni), invece, pur mantenendosi su un buon livello, mi era piaciuto di meno: troppo prodotto, troppo lungo, troppi suoni a inzuppare la poetica del nostro in un mood non interamente suo che ne annacquava tanto la potenza evocativa quanto l’urgenza poetica.
Oggi, dopo 3 anni, Vasco torna con un nuovo lavoro, Terra, che esce ancora con La Tempesta Dischi, al solito foriera di musica d’alta qualità.
Se vi aspettate quei suoni essenziali, quel groove quasi ossessivo e quella voce ruvida che aveva fatto grandi Canzoni da spiaggia deturpata e Per Ora noi la chiameremo felicità rimarrete delusi. Questo è un disco più suonato, pensato, arrangiato, decisamente più simile a Costellazioni, anche se, rispetto al precedente, risulta maggiormente centrato, elastico e a bersaglio. È come se a Brondi avessero cucito addosso un abito su misura, che ne accompagna con successo le forme, e gli sta bene, benissimo addosso, anche se lo infighetta un po’. E allora ti viene da pensare che, forse, con quel maglione infeltrito dalle maniche sgualcite e i jeans sformati ti arrivava più forte. Però solo i sassi non cambiano mai, si cammina domandando e con le risposte si fa prima bagaglio di vita e poi arte. I testi del nostro, che vivono di immagini visionarie, sono sempre devastanti e, oggi, nemmeno lo si può più accusare di immobilità stilistica, visto che Terra, con le sue aperture verso un meltin pot di suoni e colori ci mostra il contrario.

E poi, quando Vasco lascia la voce a drappeggiare imperfetta, libera di mostrarci le sue polaroid sul mondo, i risultati arrivano con tutta la freschezza che li ha sempre caratterizzati. L’apertura di A Forma di Fulmine sembra il seguito di Cara Catastrofe, sorta di dialogo immaginifico con una lei con cui scegliamo di camminare questa esistenza malata con la voglia comunque di continuare a vivercela tutta.
Qui è una bomba di versi liberi che raccontano mille e uno mondi a mollo nelle loro contraddizioni, fra melodie che profumano di Africa, voce tagliente e un’ansia comunicativa che travolge come un’onda gonfia gonfia.
Se con Coprifuoco il tiro fin qui altissimo del disco si prende una pausa, con Vasco che si fa un po’ il verso regalandoci una versione più annacquata di sé stesso, la successiva Nel Profondo Veneto è un lucido resoconto di una delle tante vite di una giovane donna in cerca di emancipazione e un minimo di progettualità di vita, fra lunghe notti, contratti a termine e sesso come catarsi per sciogliere l’alienazione.

Watz degli scafisti, aperta da una intro morbida, volge lo sguardo a quell’altrove nero con cui ci siamo dovuti confrontare all’improvviso, la globalizzazione che ci presenta il conto con tutti gli interessi del caso, ma è anche una presa di coscienza della bellezza di tutte le molteplici diversità.
Iperconnessi è invece il sabba per esorcizzare il mondo dei social e la sua follia, nel suo incedere nero e tecno sembra la marcetta di un black block che fa della rete la propria piazza.
Con Chakra, Vasco si misura invece con la forma classica di canzone, fra rimandi alla mistica new age, una coppia normale abitata dalle immancabili ansie generazionali e il nostro strano mondo sempre sullo sfondo. Bene ma non benissimo.
Stelle Marine è un passaggio imponente, forte e vivo, un’istantanea sui giorni nostri che ribolle contraddizioni e bellezza, imperfezioni e picchi mentre ovunque vibra il suono della vita.
Moscerini tratteggia invece l’ineluttabilità dell’esistenza, un’esistenza che ci vede protagonisti di un film che può finire da un momento all’altro, e lo fa con un suono asciutto che arriva confuso come un temporale che lava via le pagine scritte d’inverno. Chiude il lavoro Viaggi Disorganizzati, apologia sullo scorrere del tempo e altre sciocchezze, con il nostro che giganteggia, emoziona e poi sceglie di aprirsi a una curiosa litania di origine araba che spegne tutte le luci e ci manda a casa consapevoli di non aver perso tempo ascoltando questo disco.
Vasco Brondi è l’outsider che è salito a palazzo, ha ucciso il re, preso la corona per poi fonderla e farne un frisbee. Un frisbee che oggi lancia a mezzo vento, libero di fotografare la terra e le sue ansie, per poi tornare e farne melodia. Deve solo stare attento a fare in modo che le sue visioni arrivino intatte, libere dall’ingombro di tutte quelle zavorre che possono appesantirle.

BRANO MIGLIORE: Viaggi Disorganizzati
VOTO: 7/10

TRACKLIST

1. A forma di fulmine
2. Qui
3. Coprifuoco
4. Nel profondo Veneto
5. Waltz degli scafisti
6. Iperconnessi
7. Chakra
8. Stelle marine
9. Moscerini
10. Viaggi disorganizzati