L’editoriale di oggi è molto particolare, nel mese del Gay Pride ho infatti deciso di assegnare un tema ad un professore! Nei giorni scorsi infatti, tra le centinaia di uscite di questa afosa estate, è arrivato un brano molto interessante per l’argomento che tratta e per il modo in cui lo fa. Mamma credo di essere eterosessuale di Davide Misiano, meglio conosciuto come il Professore di latino di All Together Now.
Misiano infatti, oltre ad esercitare da alcuni anni l’attività di cantante (ve ne abbiamo parlato qui), è un vero professore di italiano e latino. Di conseguenza ogni giorno si ritrova a rapporto con le nuove generazioni tra pagelle, temi e scrutini.
L’occasione del Gay Pride è stato per me un ottimo spunto per soffermarmi su una canzone che genera riflessioni, seppure in chiave ironica, come Mamma credo di essere eterosessuale.
Del resto lo sentiamo dire da sempre: la scuola, al pari dei genitori, è fondamentale nelle sviluppo delle nuove generazioni. Aiutarli nella comprensione in modo che siano migliori di chi li ha preceduti è un compito al tempo stesso importante e difficile.
Per questo ho deciso di improvvisarmi Rettore (non Donatella, tranquilli) e assegnare io stesso un tema al professore (e quando mi ricapita?). La domanda che ho posto è diretta: Essere gay è diverso?
Un quesito semplice ma che apre contemporaneamente la strada a molto interpretazioni e, sopratutto, vuole essere spunto di importanti riflessioni per cercare di far comprendere meglio a chi non capisce, non vuole capire o non ne ha i mezzi.
Il mio pensiero al riguardo lo troverete alla fine di questo articolo. Intanto lascio lo spazio al mio alunno, Davide Misiano.
Massimiliano Longo
DAVIDE MISIANO – ESSERE GAY È DIVERSO?
Mentre mi accingo a scrivere, nell’atto stesso in cui comincio a digitare, faccio i conti con il dilemma eterno che l’alunno medio prova di fronte alla “pagina bianca”: Adesso cosa dico?
E oggi che il Direttore mi fa smettere i panni di Prof e indossare quelli di alunno, oggi che il Longo assegna proprio a me il tradizionale compito-spauracchio, il cupitonante TEMA, oggi riafferro lo stesso senso di smarrimento che mi coglieva in tempi lontani. Ma se all’epoca era paura del vuoto, adesso è coscienza del rischio.
Scrivere significa fissare le cose una volta per tutte, dargli una forma definitiva e immodificabile. Scrivere significa possedere finalmente le cose del mondo, ma allo stesso tempo riconoscere che esse per noi sono irrimediabilmente e unicamente così.
“Essere gay è diverso?”, mi chiede Massimiliano Longo. “Che traccia di merda!”, vorrei rispondergli.
Avrei forse preferito una trattazione sul giansenismo manzoniano col rischio di decretare anzitempo l’insuccesso di questo articolo e alienare visualizzazioni al mio videoclip.
Ma come si risponde alla tua domanda, Direttore? Ti rendi conto di che prigione enorme sia la parola? “Diverso”, che cazzo vuol dire?
Eppure io, che di etimologie me ne intendo, so che “diverso” viene dal latino divertere: da dis- e vertere, “volgere altrove”, dirigersi in direzione “diversa”. E intanto non solo ho perso un’altra decina di lettori, ma mi sono incartato in una tautologia: non sono stato in grado di spiegare “diverso” se non con questa stessa parola, “diverso”. Perché qualunque altro sinonimo sarebbe per così dire… “diverso” .
Tra l’altro se rispondessi sì, potrei facilmente incorrere nell’accusa di omofobia o di pensiero discriminatorio latente e nel mese del Pride non mi sembra il caso. Se rispondessi no, non sarebbe diverso, solo per il fatto di aver risposto alla domanda, invischiato in quel facile populismo che a volte è più discriminante della discriminazione. Per di più, ripeto, siamo nel mese del Pride…
Appurato ciò, io dovrò pur rispondere al Direttore, perché se il Direttore chiede non puoi non rispondere. E poi l’ho scritta io Mamma, credo di essere eterosessuale, spontaneamente e fuori da ogni assegnazione. Che faccio adesso? Non rispondo a Longo?
Allora prometto solennemente che, alla fine di questo tema, dirò sì o no, senza soluzioni di comodo. Risponderò alla domanda del Direttore, “Essere gay è diverso?”. Lo farò come non conviene a un prof. Risponderò come quando scrivi perché vuoi e il voto non conta.
Ma ai miei alunni, che – se Dio si applica – leggeranno, vorrei prima dire: “Qui scriverà Davide e non il prof”. Le parole saranno sue, saranno figlie del suo legittimo modo di sentire la vita al di là di ogni veste istituzionale. Saranno l’eco della sua storia e di tutte le storie che lo hanno investito, le storie che si porta incise sulla pelle.
Quando ho scritto Mamma credo di essere eterosessuale…
Quando ho scritto Mamma, credo di essere eterosessuale ho voluto davvero volgermi altrove. Nel videoclip, girato dall’ormai insostituibile Claudio Formica, regista anche delle mie esegesi (fine del momento promozionale!), tutto è chiaro: un figlio, nel giorno delle nozze organizzate a sua insaputa, tenta di rivelare alla madre la sua “invertita” eterosessualità.
Ama una donna, mentre invece la madre (interpretata da Sabrina Bambi Antonetti del duo Palla e Chiatta), com’è normale che sia nel mondo che viene rappresentato, gli ha invece procurato una sposa-uomo (Fabrizio Colella), celata sotto un candido e tradizionale velo bianco.
La madre attua il consueto meccanismo di fuga e rimozione, come fa ogni madre che non vuole capire che suo figlio è gay: sviene, finge di non sentire, si dedica alle formalità della cerimonia, ignorando la rivelazione del figlio allo stesso modo in cui ha ignorato, probabilmente, i segnali della sua vera natura. Il figlio insiste, promette discrezione. Ma il finale non te lo svelo, Direttore. Guardalo! Anche perché Chiatta ci regalerà una delle sue massime più riuscite.
Ho messo quindi il mondo sottosopra, ho cambiato la lente con cui osservarlo. Ma ti confesso che non è neppure quello il mondo che vorrei. Perché, se ci pensi, l’unica accezione con cui noi oggi sappiamo intendere la parola coming out è quella per cui l’omosessuale è chiamato a rivelare la sua identità, negando pertanto la propria eterosessualità. Non già il contrario.
“Buongiorno, sono Davide Misiano e sono eterosessuale”. La risposta potrebbe oscillare tra una risata scomposta e un allucinato “‘sti cazzi”. Non è un coming out degno di attenzione o considerazione.
“Buongiorno, sono Davide Misiano e sono omosessuale” è invece un coming out propriamente inteso. La risposta? Silenzio attonito (se va bene!). Oppure “Oh ma non preoccuparti, non c’è nulla di male, siamo tutti uguali”. E, a dirla tutta, entrambe le reazioni mi fanno abbastanza inorridire.
Non credo, però, di essere contrariato dalle risposte in sé: se nessuna delle due mi va bene, il problema è mio. Il problema è che non riesco ad accettare la necessità del coming out, come non riesco ad accettare che sia necessario dire di avere gli occhi azzurri.
Non riesco ad accettare le condizioni sociali che pongono in essere l’azione di coming out, prima che le eventuali reazioni conseguenti.
Il coming out degli artisti…
Mi spiego, e parto proprio dalla musica che tanto interessa i lettori di questa pagina. Qualche anno fa Tiziano Ferro ha dichiarato la sua omosessualità, rivelando il doloroso travaglio che lo ha portato per anni a occultare la sua identità e a non accettarsi. La sua confessione è stata riconosciuta da tutti come encomiabile ed esemplare, perché capace di essere riferimento per tutti coloro che non sono in grado di vivere serenamente sé stessi. Anche io ho giudicato “grande” il gesto e, come molti, l’ho definito “coraggioso”.
Renato Zero, il pioniere del trasformismo nella musica italiana, colui che ha sdoganato con le sue canzoni la questione dell’identità di genere e che ha fatto della provocazione l’arma per combattere ogni guerra di libertà, negli ultimi anni è stato oggetto di critica da parte della comunità LGBTQ+, che avrebbe voluto un suo coming out.
Serpeggia da tempo sul web e nell’informazione il “sospetto” che Emma possa essere lesbica; lei si difende. Quando su una rivista è apparsa la notizia “Emma è lesbica”, io ho discusso addirittura col Direttore, il quale comprendeva la reazione di Emma e gridava al pericolo delle liste di proscrizione.
Ho compreso la sua visione, ma mi sono sorpreso che nel mondo in cui viviamo Emma dovesse stornare da sé l’appellativo di “lesbica” come un’offesa.
Mahmood ha vinto il Festival di Sanremo ed è stato subito toto-scommesse sulla sua omosessualità: sono uscite foto col suo presunto boy e lui ha evitato di rispondere alla domanda insistente dei giornalisti, rivendicando il suo diritto di parlare di musica. E i fatti di letto di Mahmood, se ci pensiamo, hanno avuto più eco del suo lodevole secondo posto all’Eurovision. Non è mancato poi chi abbia trovato vigliacco quest’atteggiamento.
Io capisco il discorso sull’utilità sociale del coming out, lo capisco e lo sottoscrivo. Ma dirò di più, intuisco che il coming out sia un fatto addirittura politico: nel momento in cui diventi un personaggio pubblico, il tuo coming out o il tuo non coming out diventano un’azione politica. Ed è questo che probabilmente la comunità LGBTQ+ rimprovera al Mahmood di turno, perché il coming out di pochi serve a dire che si è in tanti, e quei pochi che si dichiarano, se “noti”, sono certamente politicamente più rappresentativi.
Ma non sembri io incoerente se preciso che vorrei che il coming out non esistesse, che il mondo non ci ponesse nelle condizioni di doverlo concepire. Mi sono sempre chiesto cosa ci sia dietro la scelta di dire di no alla domanda “sei gay?”, cosa ci sia dietro la scelta di non affrontare l’argomento.
Un po’ mi infastidisce che, nella logica dell’utilità pubblica del coming out, non ci si fermi neppure un secondo a pensare alla storia privata del singolo: d’altronde quando parliamo del travaglio di Tiziano lo facciamo con partecipazione, ma quel travaglio merita partecipazione solo perché ha portato al coming out finale, altrimenti non avrebbe avuto dignità?
Perché siamo capaci di capire la sofferenza che si può provare a sentirsi diversi in alcuni casi e la neghiamo in altri?
Se nella scelta di “non dire” ci fosse una condizione familiare da proteggere o un compagno non altrettanto “libero” da tutelare, perché non dovremmo provare a capire? Perché il bisogno politico del coming out dell’artista dovrebbe venir prima della storia personale? Perché altrimenti niente andrebbe avanti, mi si potrebbe rispondere, ed è vero. Ma io sono prima un artista o prima un uomo? E che contenuto ha l’artista senza l’uomo con il peso delle sue fragilità e contraddizioni?
Allora il marcio è in questo mondo che ci pone ancora nella situazione di dover “proteggere” una famiglia o “tutelare” qualcosa dalla nostra stessa natura. Il marcio è in questo mondo che ha indotto me a definire “coraggiosa” la scelta di Tiziano o “sospetta” l’identità di genere di Emma, quando forse Tiziano, in un mondo giusto, non avrebbe mai dovuto esser posto di fronte alla scelta ed Emma mai avrebbe dovuto sentire l’urgenza di “difendersi” e “difendere”.
È il nostro mondo che pone le condizioni di questa paura. E questo mondo oggi ci dice anche di non dire che “essere gay è diverso”, ci toglie questo vero “coraggio”.
“Ormai ci sono più gay che etero…”, “Non ci sono più le discriminazioni di un tempo”, “L’omosessualità è stata abbondantemente sdoganata, i gay sono dappertutto”: è ciò di cui ci vuole convincere questo mondo marcio, che arriva persino a vedere nel Gay Pride una manifestazione anacronistica che adotta delle forme “inutilmente carnevalesche”.
C’è ancora bisogno del Gay Pride se stiamo qui a quantificare le conquiste. C’è ancora bisogno di qualcuno che si vesta da carnevale e che conquisti un diritto di cui io e il lettore possiamo godere “discretamente” e comodamente da casa, in abiti borghesi ben più comodi.
Conclusione
Ma la verità – e arrivo alla traccia del tema – è che, se paradossalmente qualcuno ha dovuto conquistare il diritto di essere sé stesso, allora è doppiamente diverso.
Vogliamo negare che un gay nasca con un cammino meno semplice? Vogliamo davvero credere che un eterosessuale non abbia più spianata la strada dell’espressione di se stesso? Vogliamo negare che LUI, l’etero, per il mondo nasce con le carte in regola?
Un eterosessuale non deve fare COMING OUT. L’omosessuale sì e, se non lo fa, porta anche con sé il peso di una responsabilità sociale, il peso di una lotta non compiuta per se stesso e per tutti. L’eterosessuale non è chiamato a questo. Un gran culo (senza equivoci, eh)!
Ho finito un tema per il quale io stesso mi metterei 4, anzi forse 4+ per premiare il “coraggio”. Ma almeno ho risposto: io ho risposto SÌ, Direttore, l’omosessuale è diverso. Lo sarà fino a che ci sarà il coming out, o meglio fino a che il coming out sarà richiesto. Essere gay è diverso.
Lo decide questo mondo che ancora ci chiede chi amiamo nel nostro letto.
Davide Misiano
Nel ringraziare Davide Misiano per essersi prestato a questa profonda riflessione aprendo un’importante finestra su se stesso, non posso che dargli ragione. La natura della mia domanda nascondeva proprio questo, il bisogno di scrivere e imprimere questo concetto, forte ma realistico, essere gay è diverso.
Essere gay comporta un percorso in salita che, tra le tante cose, passa attraverso l’accettazione di se stessi, la ricerca del coraggio di rivelarlo agli altri e infine a chi ci ha generato. Persone a cui in ogni caso, quale e quanta sia la propria apertura, si troveranno a dovere fare i conti su qualcosa che il mondo ancora non accetta, non comprende e che al massimo tollera.
Tolleranza, in questo frangente l’ho sempre trovata una parola di merd*. Nessuno andrebbe tollerato e nemmeno accettato. Nessuno dovrebbe ricevere il permesso o il benestare per essere semplicemente se stesso.
Essere gay è diverso ed è complicato spiegarlo ad un eterosessuale, anche nel mese del Gay Pride, è difficile quanto insegnare ad un ragazzino ricco cosa vuol dire essere povero. Capirà ma non comprenderà.
Massimiliano Longo