Enrico Ruggeri lancia La Rivoluzione, singolo apripista del suo nuovo progetto discografico atteso per la primavera.
Occasione per realizzare questa intervista nella quale il cantautore ci racconta la sua rivoluzione, tra bilanci di carriera, un Festival di Sanremo che non sente più adatto alle proprie caratteristiche e la mai sazia voglia di raccontare la musica.
Il singolo La rivoluzione è uscito per Anyway Music, etichetta discografica del cantautore, con distribuzione Sony Music Italy. Il brano è stato scritto dallo stesso Enrico Ruggeri con Massimo Bigi mentre la produzione è di Enrico Ruggeri, Fortunato Sacca, Sergio Bianchi e Marco Montanari.
Enrico Ruggeri intervista
La Rivoluzione percorre l’evoluzione di un’indole ribelle nelle varie fasi della vita tracciando una sorta di bilancio.
Nel brano metto in evidenza la differenza che c’è tra i nostri sogni dell’adolescenza e quello che poi andiamo a vivere. La nostra vita è diversa da come ce l’immaginavamo, nel meglio o nel peggio ma ci sono sempre grosse differenze.
Il tutto guardato dalla mia angolazione: la mia generazione è molto particolare. Noi nati tra la fine degli anni 50 e l’inizio degli anni 60 siamo quelli che per primi sono stati investiti dal problema dell’eroina, siamo partiti dai gettoni del telefono e arrivati ad internet… abbiamo visto la lotta armata e appartengono a questa generazione le persone che in questo momento gestiscono il paese.
Aldilà della generazione in toto, nel suo caso personale il bilancio dovrebbe essere comunque positivo.
Personalmente speravo di fare musica, il destino è stato benevolo… nella vita spesso si fanno scelte sbagliate e si combina qualche guaio… i rimpianti ce li hanno tutti, ma quando facevo i primi concertini avrei ringraziato il cielo se avessi potuto fare anche solo un disco. Se allora mi avessero detto che avrei superato i 60 anni con 38 dischi fatti, 8 libri scritti e tutto il resto, non ci avrei sicuramente creduto…
Nel brano parla dell’essere “Ricchi impoveriti dalla nostra stessa ricchezza”. Cosa le ha tolto il benessere – anche economico – che ha costruito grazie al successo?
Una cosa che posso dire per certo è che il grafico della mia felicità e quello del mio conto in banca sono sempre andati per due strade diverse.
Più che la ricchezza del conto in banca, il rischio è di vivere una vita che si allontani dalla realtà. Il pericolo di quelli che fanno il mio mestiere è quello di essere viziati e dare tutto per scontato.
Io, anche grazie alle esperienze con la Nazionale cantanti, ho avuto la possibilità di stare a contatto con il disagio e con il dolore. Il contatto diretto con i lati oscuri di questo paese e del mondo mi ha tenuto legato alla realtà.
Lei ha 2 figli molto giovani, cosa vede di confortante e cosa di preoccupante nelle nuove generazioni?
La cosa più preoccupante è il desiderio spasmodico che hanno di omologarsi… quando avevo 15 anni se tutti volevano vestirsi di giallo, io mi vestivo di verde. Se a tutti piaceva una cosa, io cercavo di farmi piacere qualcosa di diverso. Allora il desiderio era quello di distinguersi.
Oggi molti ragazzini hanno il terrore di essere cani sciolti, si sentono confortati dall’avere i gusti del gruppo, di vestirsi come il gruppo, di ascoltare la musica del gruppo,…
Il lato positivo sono le immense possibilità che oggi ci sono dal punto di vista della conoscenza e delle tecnologie: la vita è molto facilitata in questo. Non è di per sé un vantaggio, ma può diventarlo sicuramente.
Enrico Ruggeri poco è sbarcato su Tik Tok, dove realizza pillole di storia della musica. Un contesto apparentemente lontano dal suo target…
Il fatto di muovermi in contesti apparentemente lontanissimi è una cosa che a me piace da morire da quando nell’80 andai a Sanremo con Contessa. Mi piace fare la mosca bianca tra le nere.
Tre anni fa ho insegnato per un anno storia della musica contemporanea al Conservatorio Verdi di Milano e le mie lezioni erano molto seguite. Erano sicuramente rivolte ad un élite di ragazzi che studiavano uno strumento, ma mi trovavo a parlare degli Who a ragazzi nati nel 2000.
Nei confronti magari loro citavano i Greta Van Fleet e io li invitavo a soffermarsi sui Led Zeppelin.
Da quell’esperienza ho capito che esiste una fetta di giovani alla quale interessa la storia del Rock.
Un giorno mi sono detto: vado nel posto più strano possibile, dove si trovano tette, culi, battute, gag, balletti e apro una finestra dove raccontare la musica.
Sicuramente un azzardo. Riscontri?
Buoni, anche se sicuramente non diventerò un influencer da milioni di visualizzazioni.
Sono partito raccontando un libro – Opinioni di un clown – non proprio facilissimo, ma ho visto che c’era comunque un gran numero di persone che ha guardato il video. Da lì mi son detto, perché non raccontare chi erano i Velvet Underground e così via.
Adesso che arriverà il nuovo album, ogni giorno dedico un contenuto ad uno dei miei dischi precedenti.
La sua personale rivoluzione oggi coincide con un esporsi in maniera anche dura e senza filtri sui social e sui media, toccando temi e situazioni non prettamente musicali e rivendicando spesso il merito di metterci la faccia.
Più che altro mi meraviglio di quanta gente non lo faccia. Non hai idea di quanti artisti in privato si sfoghino dicendomi “bisogna cambiare” “mi son rotto di qua, mi son rotto di là”.
Poi rilasciano interviste e sembra abbiano paura della propria ombra. Ci sono tanti personaggi pubblici che secondo me potrebbero usare meglio la loro celebrità, quantomeno per dire quello che pensano.
Probabilmente temono che farlo distoglierebbe l’attenzione dalla musica o attrarrebbe polemiche che non si vuole fomentare.
Sicuramente. Ma bisognerebbe pensare che nella vita il successo non dovrebbe servirti solo per comprarti la macchina.
Dovresti usarlo anche per dare forza al tuo essere te stesso.
Oggi purtroppo il rovescio della medaglia dei social ha fatto in modo che per molti artisti il like è diventato una pagella: molti personaggi pubblici ormai fanno quello che pensano generi più consensi.
Come i politici dicono una frase al loro popolo elettorale costruendola prima, ormai anche i cantanti fanno lo stesso con i loro fan. Questo è pericoloso, perché un artista diventa un monolite, fatto solo di cose buone e giuste.
Lei dà l’impressione di essere iperattivo. In questi anni di riduzione dell’attività live forzata oltre al tempo in studio per la lavorazione del nuovo disco, ha anche avviato altri progetti?
A marzo 2020 durante il primo lockdown ho scritto un romanzo. Un progetto molto articolato per il quale stimavo ci volessero 3 o 4 anni… ho iniziato a lavorarci 6 ore al giorno, impensabile trovarle in una condizione normale.
Poi ho prodotto 2 album: uno strumentale di Silvio Capeccia – tastierista dei Decibel – e uno di un cantautore e amico, mio Tour manager, Massimo Bigi (coautore de La Rivoluzione ndr): mentre tutti i discografici sono alla spasmodica ricerca di rapper sedicenni, io ho prodotto l’album esordio di un 62enne…
A brevissimo parte Sanremo, avrebbe voluto lanciare il suo nuovo progetto da quel palco?
Questa volta non mi sembrava il caso. Non mi sembra un Festival adatto alle mie caratteristiche.
Cioè?
Fare canzoni che magari devi ascoltare con un po’ di concentrazione… o quantomeno arrivare ad un secondo ascolto.
Quali caratteristiche vede adatte a Sanremo oggi?
Se noi andiamo a chiedere alla gente “cosa ti ricordi degli ultimi 4 Festival di Sanremo?” Secondo me almeno il 90% ti direbbe la lite di Morgan e Bugo. Il restante 10% si divide tra i costumi di Achille Lauro, i Måneskin – spero per loro – e poco altro.
Se già chiediamo chi ha vinto due anni fa… secondo me non se lo ricorda nessuno.
Immagino che queste riflessioni siano figlie anche di alcune sue partecipazioni che non la hanno appagata in pieno.
Assolutamente sì, non potevo certo fare 11 successi su 11 partecipazioni.
A Sanremo ho vissuto cose incredibili come vincere con Mistero, oppure fare il giro del mondo con Morandi e Tozzi e vedere la mia casa discografica passare dalla cassa integrazione al turno notturno per stampare Si può dare di più.
Questa non la sapevo…
Sì sì, tu arrivavi alle 3 del mattino e c’erano le presse che lavoravano per stampare il disco.
Le esperienze meno esaltanti invece quali sono state?
Mi è capitato di andare a dei Festival dove, nonostante credessi molto nella canzone, non è successo granché.
Posso dire con convinzione, anche perché la musica non è mia, che la canzone più bella che ho portato a Sanremo per distacco è Lettera dal Duca con i Decibel. Amata molto dai miei fan, ma lontana dal riscontro di altre canzoni anche recenti, come Primavera a Sarajevo o Il Primo amore non si scorda mai.
Come se lo spiega?
La partecipazione al Festival è diventata un po’ “una botta e via” , poi se sei un nome già molto visto cominciano a scrivere “il decano, la vecchia generazione, etc etc” e vieni anche guardato in una maniera diversa, con meno attenzione… per questo attendo tempi migliori, ecco.
Un chiarimento sul piccolo ma virale “caso Bertè” e la sua affermazione a The Voice Senior che sembrava “delegittimare” in parte la sua paternità de Il Mare d’Inverno…
Forse è ancora arrabbiata perché non ho potuto partecipare alla sua trasmissione lo scorso anno, non lo so…
Di sicuro non si ricorda bene, cosa che con una vita intensa come la sua è comprensibile…
Lei dice di avermi chiamato da New York, dimenticandosi che noi non ci conoscevamo. Io ho conosciuto Loredana dopo che Il Mare di Inverno era già uscita come suo singolo.
Io lavorai solo con Fossati, all’epoca ero un ragazzino e credo che Loredana nemmeno sapeva chi fossi.
Comunque ho voluto risentire il provino de Il Mare d’Inverno fatto da Schiavone ed era già così… diciamo che è stata copiata in bella.
Grazie in particolare a questa canzone e a Quello che le donne non dicono lei viene identificato come un grande autore per interpreti femminili. Ha in cantiere la realizzazione di brani per altre voci femminili?
Io per le collaborazioni vado a naso, ad amicizie… oggi non credo che il “pezzo di Enrico Ruggeri” possa cambiare una carriera.
Oggi i pezzi devono sfondare subito. Ai miei tempi da sconosciuto – appena sciolti i Decibel e con un disco che non aveva venduto nulla – mi fecero un contratto da 5 album solo perché erano piaciuti i miei provini.
Oggi è impensabile: non puoi sbagliare un colpo e devi partire subito col singolo che spacca… non sono adatto a questo modo di lavorare.
A scrivere il tormentone estivo in Raggaeton c’è gente più brava di me.
È un altro mestiere, con tutto il rispetto per chi entra in studio e dopo poco esce con un pezzo che va in radio: io non sono capace. Se a qualcuno interessasse fare cose belle senza esigenze di mercato, volentieri, ma che non mi chiedessero di scrivere una hit.
Ringraziamo Enrico Ruggeri per il tempo concessoci in attesa di poter parlare con lui anche del suo nuovo album.