All Music Italia incontra Folco Orselli, eclettico musicista milanese classe 1971. Lo scorso dicembre è uscito il suo ultimo disco intitolato Outside is my side realizzato con la coproduzione di Gino e Michele: un titolo emblematico per una raccolta di 11 tracce a cavallo tra blues e cantautorato italiano che intrecciano quotidianità, sentimento e sociale con onestà e mestiere. Alle sue spalle un paio di decenni di esplorazione musicale: dal Festival di Sanremo 1995 (con i Caligola) e gli opening per Tina Turner e Zucchero l’anno successivo, alla fondazione nel 2014 de la scuola Milanese (collettivo live di intrattenimento con Claudio Sanfilippo e Carlo Fava) passando per Musicultura nel 2008, edizione in cui Folco ha vinto… tutto! (primo premio assoluto; premio della critica ed il riconoscimento per il miglior testo)
Di seguito, la nostra chiacchierata alla scoperta (felice) di un cantautore sincero, senza filtri ed oltremodo vero.
Buona lettura:
Perchè Outside is better then Inside per te?
Outsider è la contrapposizione all’insider; viviamo in un’era in cui c’è chi fa di tutto per essere “dentro” a certe logiche: i produttori di dischi che non producono più; le majors non investono più sugli artisti ma pensano esclusivamente al soldo. Lo definirei un periodo sinusoico basso, come me tanti artisti che conosco hanno riflettuto su questo argomento e condividono la mia posizione. Se per essere dentro bisogna aderire a questi nuovi stereotipi di artista, io me ne chiamo fuori. Outside is better than inside. A mie spese cerco di restare coerente ai miei ideali di bellezza e di arte, è la mia piccola rivoluzione.
Definisci questo concetto di bellezza nell’arte
La bellezza è un concetto soggettivo applicabile alla musica come a tutte le cose; devi conoscere la bruttezza prima, devi sudare, scontrarti contro dei muri, investire tanto del tuo tempo ad imparare, ricercare il tuo modello; è il momento esatto in cui ti accorgi di stare facendo qualcosa per cui hai lottato, magari hai anche sofferto. La fine di un percorso che inizia e finisce dentro di te; quasi un premio. Sono i centometristi che non mi piacciono ed a cui mi contrappongo; preferisco fare la maratona.
L’album si caratterizza per la grande varietà di temi che lo compongono, ma di base si evidenzia da se una vena particolarmente malinconica ed in qualche modo romantica; In che periodo della tua vita hai scritto queste canzoni?
Diciamo che questo disco ha avuto una gestazione strana: ci sono pezzi che ho scritto molto tempo fa ed alcuni molto più recenti che sono arrivati in chiusura cantiere… Diversamente dagli altri lavori per questa volta ho preferito buttare via un po di maschere che in passato ho indossato e che hanno caratterizzato i miei dischi precedenti di una teatralità che amavo (e che ancora amo) ma che per certi versi mi portava a parlare più del mondo che avevo intorno piuttosto che del mio privato. In Outside is my side parlo molto di me, di quel che mi riguarda più da vicino quindi probabilmente anche del fatto che sono una persona malinconica (ride nrd). Quel che è certo è che scriverlo mi ha fatto risparmiare sul conto dell’analista.
In mezzo a tanto intimismo, quasi subito, fai apparire Il Lupo; un brano molto interessante che prende ispirazione da un fatto di cronaca ben lontano dal tuo “mondo”. Come mai la scelta di metterlo in scaletta mentre parli di te? E’ forse un’apertura verso un contesto cantautorale più “impegnato”?
Il Lupo è un buon esperimento nato per caso: un giorno ho letto sul giornale di un fatto, mi sembra fosse accaduto in Toscana, per cui un branco di lupi stava per essere sterminato dagli allevatori perchè uno di loro aveva assalito una pecora uccidendola. Questa cosa mi ha sconvolto e mi ha fatto riflettere: se un lupo, che è un animale, non può nemmeno mangiare qualche pecora (con tutto il rispetto per gli animali e l’economia dei pastori) pena la sua morte e quella dei suoi fratelli, che punizione spetta allora all’uomo che sta distruggendo praticamente tutto quello che ha intorno? Mi piaceva l’idea di dare parola ad un lupo che incarna un po’ tutti i peggiori difetti nostri ma allo stesso tempo resta una creatura profondamente mistica, collegata all’universo… quasi un allegoria antropomorfica. Per quanto riguarda l’impegno boh… Io credo che la cosa più “impegnativa” che un musicista possa fare nella sua carriera sia essere fedele e coerente con se stesso, raccontare le storie attraverso la propria sensibilità, personalizzandole…Questa attitudine al momento mi sembra quasi del tutto persa: c’è tutta una serie di giovani che colleziona numeri uno su numeri uno cantando cose impersonali, scritte da altri; autori che scrivono pensando solo al soldo… Manca la verità.
Di cosa parla invece una tua canzone d’amore?
L’importante, come dicevo, è filtrare ogni cosa attraverso la propria esperienza: se parlo d’amore parlo di calzini arrotolati sotto al letto, il rumore dello sciacquone del cesso con la porta aperta, alzarsi dal letto per cucinare qualcosa… Immagini di vita vera, non soltanto adolescenzialismo.
Siamo nell’era più digitale di sempre quindi ognuno può scegliere cosa ascoltare non credi?
Onestamente credo che i giovani di oggi si siano già rotti il cazzo di tanta digitalizzazione ma saranno loro a salvarci il culo: è vero che potenzialmente tutti possono arrivare ovunque grazie alla rete, ma è altrettanto vero che in mezzo a tanta facilità si finisce per non ascoltare quasi niente; tra piattaforme multiservizio e streaming di ogni tipo ti sembra di aver già visto tutto dal tuo schermo! La rete e i social hanno potenziato la diffusione ma in questi anni purtroppo manca la partecipazione reale delle persone ai concerti, che è fondamentale. In Italia poi non siamo pronti a recepire tanta leggerezza, ci piace avere qualcosa tra le mani; un po come a tavola ci piace mangiare di gusto e sostanza: il cd è una bella costata, il file digitale un pasto per vegani.
In questo disco ritorna uno dei tuoi temi preferiti: Milano, la tua città, nel brano che apre le danze intitolato Legato a un palo della luce – Gatto rotto Ouverture. Chi sono gli outsiders di Milano, una città frenetica, capoluogo dell’inserimento sociale?
Parlo spesso di Milano è vero, ma l’amo. Dall’odore dell’asfalto ai palazzi che svettano… Milano stessa è un outsider: una città che muta continuamente e cerca sempre una nuova pelle perché si sta sul cazzo da sola ogni tanto quindi frulla continuamente nuove cose, nuovi pensieri. Gli outsiders di Milano siamo noi stessi; i milanesi che vivono all’interno della città, galleggiamo sulla stessa acqua che un tempo ricopriva queste vie, sempre pronti a cambiare, innamorarci e disamorarci il giorno dopo, credo
Le mie spose è una piccola variazione sul tema: la musica lascia spazio al testo, il vero protagonista di questa traccia. Come è nato?
Le mie spose è un brano che ho scritto diciassette o diciotto anni fa… Sono molto affezionato a questo testo ed avrei voluto inserirlo in tutti i mie lavori precedenti ma alla fine è restato sempre fuori perché all’ultimo mi sembrava che non c’entrasse niente col resto del disco. E’ un brano maturo e diverso da tutti gli altri: mi metto a nudo e parlo dei miei amori, delle cose veramente importanti per me. Non è facile, infatti ci ho messo quasi vent’anni!!
In coda all’album c’è anche un tributo ad Enzo Jannacci con la cover del brano Quello che canta onliù. Qual è secondo te l’eredità che questo cantautore ha lasciato alla musica ed al cantautorato italiano?
Secondo me Jannacci era un vero artista. Il vero artista è colui che ha una visione, non importa se reale o astratta, e sa condividerla con il pubblico. Le sue storie sono strane, visionarie per cui è anche difficile dare un’interpretazione chiara dei testi, ognuno può (e deve) tirare le sue conclusioni alla fine di ogni ascolto. Molti brani di Jannacci sono degli enigmi perfetti: puoi decidere di decifrarli ed interpretare quella storia oppure limitarti ad apprezzarne il mestiere.
Abbiamo parlato tanto di outsider ma tu non lo sei stato proprio sempre: nel 1995 c’è un Festival di Sanremo con i Caligola. Che tipo di ricordo hai? Torneresti in gara?
A Sanremo preferisco SanVittore (ride n.r.d). Faccio una premessa: secondo me la vera libertà è la libertà di scelta ed in certi contesti non è così semplice farla rispettare. Io tornerei anche al Festival, perché no? E’ un mezzo per farsi ascoltare, forse uno degli ultimi per i musicisti italiani, ed è giusto che tanti artisti diversi si mettano in fila per partecipare a patto però, che si abbia qualcosa da dire; presenziare soltanto per non perdere un anno di messa in onda televisiva senza idee lascia il tempo che trova. In questo caso è meglio restarsene davvero outside.