Tommaso Zanello aka Piotta è uno dei più credibili pionieri della scena rap italiana. Più underground dell’underground, sul finire degli anni novanta ha ottenuto uno dei più inattesi successi discografici della recente storia italiana con il brano Supercafone, più che una canzone un trattato di sociologia in battere. Sono passati quasi 20 anni e l’artista romano ne ha fatta di strada, fra film, dischi di successo, una casa discografica e tanta tanta passione.
Federico Traversa incontra Tommaso per noi al termine di uno dei tanti live che sta tenendo in questo periodo per promuovere il suo ultimo album, Nemici; fra un sorso di birra e tanti ricordi ne nasce una bella intervista che condivide volentieri con i lettori All Music Italia.
A poco più di 25 anni hai spaccato le classifiche con un pezzo che canticchiavano tutti, soprattutto persone che della nascente scena rap non sapevano nulla. Quanto ti ha dato e quanto ti ha tolto comporre Supercafone?
Non saprei risponderti con esattezza. Parafrasando il titolo dell’album (Comunque Vada Sarà Un Successo, nda) da cui era tratta posso dirti che comunque mi ha dato tanto. È stata una bellissima e divertentissima esperienza, vissuta alla giusta età. Un cammino cominciato in maniera spontanea, nell’underground, senza sovrastrutture, carrozzoni e forzature. Ho fatto una hit di platino senza multinazionali, senza uno straccio di ufficio stampa, con le major che non capivano come fosse possibile e facevano di tutto per metterci i bastoni tra le ruote. 77 live in 90 giorni. Insomma, a pezzi ma entusiasta.
Nel tuo percorso artistico echeggiano forti i ritorni a quella Roma che sa poetare fra i banchi del mercato o all’ombra delle osterie: gli stornelli della Ferri, la poesia carnale di Remo Remotti e quella ombrosa che profumava di whisky e malavita del Califfo. Ma allo stesso tempo vi confluiscono i rimandi alla old school del rap americano, da Kurtis Blow – con cui hai collaborato – a Run DMC, Afrika Bambaataa, George Clinton, Gil Scott Heron e un mucchio d’altri maestri della black americana. Senza dimenticare l’aspetto visivo, parlo degli italici b movie che prima dell’avvento di Tarantino venivano presi per schifezze e oggi sono rivalutati come rari cimeli dell’italico splendore che fu. Ho dimenticato qualcosa? Come sei riuscito a centrifugare tutta quella roba in un progetto coerente?
Li ho centrifugati nella mia testa, e tanto mi basta. Io la trovo una centrifuga coerente e dai mille sapori. La fantasia ha la magia di unire ciò che magari per anni è sembrato agli antipodi e invece agli antipodi non è. È tutta cultura popolare, è istinto, nasce dal basso come una risata fragorosa o un pianto profondo, come una battuta raccolta per le vie di Roma o l’eleganza del declamare di Gil Scott Heron. Lo smuovere il culo del groove dei Funkadelic con la spiritualità di Bambaataa. Le citazioni di Tarantino con la fotografia de La Grande Bellezza.
Hai bazzicato il mainstream quanto l’underground in anni in cui la divisione era ancora rilevante, oggi ha ancora senso ragionare in questi termini? Come ti sei adeguato al cambiamento del mercato discografico con l’avvento della rete?
Per me ha sempre avuto senso l’attitudine. Io, hit o non hit, sono sempre stato indie. Indie come stato della mente. Mi spiego meglio. A me non interessa il centro commerciale, a me interessa il mio negozietto. Non mi è mai piaciuto sottostare alle regole altrui, né di un genitore né del mercato. Apro e chiudo quando voglio. Vendo a chi dico io e se non mi piaci è orario di chiusura, sto facendo l’inventario, rivolgersi altrove. Come certi burberi negozianti capitolini. Scusa la schiettezza ma è per farti capire il senso. Io non voglio né vendere né piacere a tutti. Anzi, la cosa mi preoccuperebbe non poco.
Tu sei la dimostrazione vivente che il rap esiste ed è credibile anche senza autocelebrarsi e parlare di quanta figa, cocaina e drink possono celebrarsi in un corpo solo. Però il genere, soprattutto, negli ultimi anni, sembra seguire la troika della thug life (sex, chicks and rap n’roll) tanto cara a certi americani. Come te lo spieghi?
Perché appunto il genere ora è bazzicato da tutti. Sembra un discorso radical chic ma non è così. Arrivando a tutti, il livello si abbassa. Come per i prodotti alimentari, un conto è bio un conto è la grande distribuzione. Io realizzo musica bio, artigianale, non artefatta. La speranza tuttavia, sempre ultima a morire per un ottimista come me, è che si rialzi collettivamente. Io spingo in tal senso.
Sei stato a Sanremo, hai suonato in Giappone e negli Stati Uniti, hai fatto cinema, tv, possiedi una tua etichetta discografica. Dicono che il successo si premi da solo e l’orgoglio non faccia altro che offuscarlo, eppure è un sentimento legittimo. E allora ti chiedo: quando ti guardi allo specchio la mattina sei soddisfatto del tuo percorso? C’è qualcosa che rifaresti diversamente o non rifaresti proprio?
Rifarei tutto. Rifarei diversa solo una cosa, il film. Una grande occasione doveva essere gestita meglio. E’ chiaro che il cinema è un meccanismo complesso, e non colpa di un singolo, ma io lavoro sempre per migliorare me stesso, come uomo e come artista. Per cui faccio volentieri autocritica. Mi riservo prima o poi di tornare su questo capitolo. Per ora lo sto facendo a livello musicale collaborando ad alcune colonne sonore, poi si vedrà. Anche l’esperienza teatrale, in tal senso, è stata importante.
Il tuo ultimo disco si intitola Nemici ed è assolutamente delizioso. Il pezzo con Captain Sensible mi ha riportato ai miei dieci anni quando cantavo a squarciaagola la canzone di Mr Damned sul divano dei miei. Come l’hai rintracciato?
Innanzitutto grazie per i complimenti. Ray l’ho rintracciato grazie a Facebook. Semplicemente ho avuto la sensazione che lavorasse da artigiano come me. Diverse età, percorsi, stili ma medesima attitudine. Lontana anni luce dalla plastica del mainstream. Come lo sono tutti gli altri ospiti, Bambaataa, Brusco, i Modena City Ramblers, Il Muro del Canto. Gente di poca scena e molta sostanza. Creativi veri.
Parlando sempre di Nemici, è innegabile come titolo e grafica del disco siano un neanche troppo velato attacco al mondo dei talent. Che opinioni hai su questi programmi? Ti ha mai contattato il marito di Costanzo?
Non mi sono mai piaciuti ed il mio percorso lo dimostra. D’altronde il mondo è bello proprio perché è vario per cui c’è spazio per tutti. Gli amici e i nemici. Io logicamente appartengo alla seconda categoria. L’hip hop una volta apparteneva alla seconda categoria. Da qualche tempo anche alla prima, e torniamo al discorso di cui sopra.
Nella tua musica non è mai mancato quel pizzico di denuncia sociale, impreziosito dalla tua innegabile capacità di sintesi e da quell’ironia dissacrante che avete solo voi figli di Roma. Eppure è stato uno dei tuoi pezzi apparentemente più disimpegnati – La Grande Onda – a diventare inaspettatamente un vero e proprio inno contro la riforma Gelmini. Magia della musica. Che effetto ti ha fatto?
Magia della musica, esatto. Ogni canzone è come una figlia. È dell’autore ma anche di se stessa. A volte fa percorsi lunghissimi e tortuosi e finisce in contesti diversi da quelli da cui è stata partorita. Un brano autobiografico diventa collettivo, un brano introspettivo diventa di denuncia. La Grande Onda ha fatto esattamente questo, e ne sono fiero.
Credo sia il mio destino, è il senso di marcia della mia evoluzione. Tutto va nella direzione dell’impegno e della denuncia sociale, dal teatro con Gherardo Colombo alla campagna con Greenpeace, dal World Refugee Daay con l’UNHCR alla doppia candidatura al Premio Amnesty.
Ok, siamo arrivati alla parte necro dell’intervista: puoi riportare in vita un artista scomparso per collaborare con lui. Chi scegli?
James Brown … tutta la vita!
Necro domanda parte seconda: puoi uccidere un artista vivente (ovviamente artisticamente parlando, ad All Music Italia siamo per la non violenza) e non sentirlo cantare mai più. Sputa il nome…
Uccidere non mi piace per cui ti rispondo nessuno. Io credo che il ruolo di certi artisti è di fare da perfetto contraltare ad un’opposta visione della vita, e viceversa. Tipo me e Gue Pequeno insomma.
Nel tuo libro “Troppo Avanti” ho letto della tua passione per il porno d’autore. E ovvia quindi la domanda rated x: categoria preferita su you porn e diva del porno che vorresti in un ipotetico tuo film sullo stile di quelli che fece anni fa Snoop Dog.
Se faccio un film hard io potrebbero davvero farlo tutti. Mi sa che è meglio che chiedi a Gue Pequeno. Ironia a parte, ti rispondo che, avendo cominciato a fare sesso presto, la mia categoria è “alternative” anche nel sesso. Per non seguire la noiosa logica del già seminato. Non a caso la mia casa di produzione preferita è la Kink di San Francisco.
Penultima domanda: il vinile a cui sei più affezionato fra i 15 mila della tua collezione?
Scusa l’appunto da collezionista ma sono 17.000.
Comunque, visto che prima lo citavi, è quello con la dedica del Califfo. Quando, tanti anni fa, mi propose di scrivere un brano a due, lo accennammo solamente. Troppa diversità che all’epoca non sapevo gestire e valorizzare come saprei fare oggi.
Ultima domanda: fossi pischello adesso, lo faresti il rap?
Si, ma come lo fa Mezzosangue. Che poi è la stessa attitudine con cui l’abbiamo fatto tutti noi romani negli anni novanta. Io, il Colle, Sebastiano. Lontani anni luce dalla becera discografia industriale. Ognuno col suo stile ma comunque tutti genuini e massicci.