Rap – Una Storia Italiana è il primo libro di Paola Zukar, fondatrice negli anni ’90 di «Aelle», rivista specializzata sulla cultura hip hop e successivamente punto di riferimento nell’affermazione di questo genere musicale nei circuiti mainstream grazie a Big Picture Management, società che negli anni ha prodotto artisti come Fabri Fibra, Marracash e Clementino.
Rap – Una Storia Italiana, edito da Baldini&Castoldi, è già alla quarta edizione e noi abbiamo intervistato Paola Zukar per conoscere meglio la storia di questo genere raccontata da chi lo conosce meglio di tutti.
Rap – Una Storia Italiana, il tuo primo libro, è già alla quarta edizione! Ti aspettavi un riscontro di questo tipo?
No, effettivamente non me lo aspettavo. Pensavo sarebbe stato un libro relegato alla nicchia degli appassionati e dei curiosi, invece anche molti ragazzi che scrivono sono interessati a conoscere quello che succede al di là del lavoro degli artisti. Sono sorpresa.
Come è cambiato il Rap dal 2006 a oggi?
Tantissimo. Ha avuto diverse fasi dal 2006 in poi. Il 2006 è stato l’inizio del Rap nel mainstream. Prima era altrettanto florido a livello creativo, ma i numeri parlavano di un mercato piuttosto limitato.
All’epoca in generale si vendevano molti più dischi, poi tra il 2000 e il 2008 c’è stato il boom della pirateria e un calo generale che in questi anni sta vivendo però un’inversione di tendenza grazie allo streaming che ha portato un apparrente ordine nel mercato discografico.
Negli anni 90 si vendevano i dischi fisici, poi quando siamo arrivati noi è stato proprio il minimo storico del mercato discografico.
Questo ovviamente ci ha anche aiutato. Entrare nel mainstream in un periodo di crisi è stato più facile. Siamo stati favoriti molto dal web e da quel tipo di comunicazione un po’ più aggressiva.
Dal 2006 in poi il rap non ha fatto altro che salire nel gradimento del pubblico più giovane.
Il 2017, poi, registra l’inizio di un’altra fase importante, quella di continuare a piacere agli adulti, fatto inedito in Italia.
Quando hai 30-35 anni e ti sposi e metti su famiglia abbandoni la musica e quando per esempio chiedi: “Che musica ascolti?” la risposta è spesso: “Ascolto la radio!” che significa tutto e niente. Adesso vedo i risultato dei veterani del Rap come Caparezza, Fibra, Gue Pequeno che hanno ottenuto risultati anche al di là del pubblico dei giovanissimi.
Qual è stato il momento di svolta del Rap italiano?
Per il mainstream come detto il 2006, ma ciò non significa che prima le cose non succedessero, anche se era diverso. Prima non era un genere musicale o un movimento a fare la differenza, ma i singoli artisti che sfondavano e entravano in classifica. Il movimento c’era ed era pesantissimo. Le canzoni erano molto efficaci e avevano anche una profondità che forse adesso manca, ma si trattava pur sempre di un genere di nicchia e apprezzato dai pochi che avevano avuto la fortuna di entrarci in contatto perchè i media di massa non lo consideravano.
La svolta l’ha avuta con Fabri Fibra che ha piazzato due colpi da pugile, destro e sinistro, prima con Mr. Simpatia e poi Tradimento.
Il KO è arrivato di conseguenza con Club Dogo, Marracash e Mondo Marcio con Dentro alla scatola.
Iniziavano ad essere tanti gli artisti che confermavano il rap come genere musicale di punta e non più di nicchia.
Cosa pensi delle esperienze di Rap italiano precedenti al 2006, per esempio quelle degli anni ’90?
Erano estremamente efficaci, ma avevano una portata limitata perchè poco supportata dai media italiani, un po’ perchè la prima fase di alfabetizzazione è stata difficile.
Passare dall’inglese all’italiano non è stato indolore, perchè la nostra è una lingua complessa e non è facile rimare in 4/4.
Ci sono volute tantissime esperienze diverse prima di arrivare a una conoscenza dei mezzi. Un esempio è Neffa che ha, per così dire, spiegato e mostrato a Fabri Fibra e ad altri come fare rap di un certo livello, con uno slang locale e non tradotto.
La fase degli anni 90 è servita tantissimo per avere una delle cose più importanti, cioè una identità locale che non fosse un’imitazione o una traduzione del modello americano.
Nel tuo libro dici che l’Italia ha accettato il fenomeno Rap “suo malgrado”. Cosa intendi?
Gli italiani hanno sempre ascoltato musica molto diversa proprio strutturalmente e contenutisticamente. Gli italiani non erano pronti ad accettare una musica che parlasse della realtà. Lo dice la storia della musica del nostro paese. Lascia stare la parentesi dei cantautori o della controcultura anni ’90 super interessante tipo dei CCCP o di altri gruppi underground che uscivano raramente da questa nicchia.
Gli italiani del mainstream sono sempre stati interessati a una musica che li facesse sognare e che fungesse più che altro da sottofondo. Quella che si è sempre chiamata Musica leggera che è un modo di dire che non mi piace perchè la musica può essere anche molto pesante in senso positivo. La musica può accelerare cambiamenti se sa dire qualcosa. Il rap è il genere che incarna meglio questo principio e lo può fare meglio di altri.
Il sogno, il mare, il cuore, l’amore credo che fossero le ancore della musica italiana e il Rap le ha spezzate.
Nel libro parli del fatto che il Rap italiano non ha mai avuto successo all’estero o addirittura è risultato ‘Missing in Action’, cioè ‘non pervenuto’. Quali sono le motivazioni?
La lingua e la portata culturale dell’Italia, che è più forte in altri settori e non nella musica. Questo non è un problema solo del rap, ma se guardi gli artisti italiani che funzionano oggi sono pochissimi e incarnano generi musicali molto diversi, tipo Il Volo, Bocelli, Laura Pausini. E’ un problema più che altro culturale ed economico.
Dove siamo forti, nel design, la cucina, veniamo abbracciati, mentre nella musica non siamo mai stati considerati forse perchè non abbiamo mai voluto veramente esportarla. La lingua è un’ostacolo importante, ma non solo la nostra. Un esempio è il Rap francese che è più radicato del nostro, ma in America ha comunque una rilevanza trascurabaile a parte alcuni gruppi che ci arrivano. Il Rap italiano funziona in Italia, quello francese funziona in Francia. Non è una regola, ma per i grandi successi funziona così.
Universal è stata la Major che probabilmente più ha creduto nel Rap italiano. C’è qualcuno che all’interno dell’etichetta ci ha creduto più di altri?
Sì, senz’altro. Per fortuna in Universal ho trovato sempre degli interlocutori molto attenti perchè se ci pensi nel 2006 il Rap non lo voleva nessuno. In altre case discografiche mi rimbalzavano perchè erano tutti convinti che il Rap fosse passato di moda e non credevano che sarebbe tornato.
Al contrario il mio primo interlocutore in Universal è stato Pascal Nègre, allora presidente ad interim di Universal Italia che, come presidente di Universal Music France, aveva già lavorato il Rap e con grande soddisfazione. Lui ha convinto i vertici di Universal Music Italia a riprendere il discorso legato al Rap e ciò ha funzionato.
Ora in Universal c’è Jacopo Pesce A&R che si occupa di buonissima parte delle uscite Rap e che conosce anche le dinamiche del genere musicale che può applicare anche a progetti diversi.
Marco Zischka ha avuto un contributo nel processo di affermazione del Rap mainstream in Italia?
Grande Marco! Beh, sì. All’epoca era lui il Direttore e pubblicò Tradimento. Quindi, sì.
Che futuro prevedi per il rap italiano?
Guarda… Ci saranno certamente alti e bassi, ma sicuramente il Rap italiano è qui per restare e avrà un futuro florido.
Ha una sua identità come in altri paesi europei ed è radicato. In questo periodo storico e culturale trasmette e riesce a comunicare più di altri generi.
Foto di Pala Zukar: Carlo Furgeri Gilbert