E´arrivata nei giorni scorsi attraverso Enzo Mazza, presidente della FIMI (Federazione Industria Musicale Italiana), un’importante notizia: prossimamente grazie al rinnovo della partnership tra FIMI e GfK oltre alla classifica degli album/singoli/vinili più venduti saranno finalmente resi noti anche i numeri di vendita.
Mazza ha dichiarato a Rockol quanto segue:
“Siamo molto soddisfatti che le nostre chart rappresentino un indice sempre più affidabile dell’andamento del mercato”, spiega a Rockol Enzo Mazza, presidente della Federazione Industria Musicale Italiana: “Le nostre classifiche sono uno strumento ufficiale che raggruppa tutte le piattaforme – streaming, dowload e fisico – e prossimamente, dato l’andamento che vede il digitale occupare una quota sempre più importante del settore, lo streaming verrà integrato anche nel segmento degli album, e non più solo dei singoli.
Se le classifiche e le certificazioni sono già da tempo uno strumento importante a disposizioni degli addetti alla discografia per pianificare il lancio sul mercato e la promozione di un prodotto, il nuovo servizio – oltre che alle etichette – sarà molto utile anche ad attori contigui alla realtà musicale, come per esempio brand o società che vogliano verificare l’effettiva popolarità di un artista o di un titolo. All’estero è già molto richiesto, soprattutto dalle etichette interessate ad avere un riscontro sui dati forniti dai distributori stranieri, ma l’aspetto più importante di questa novità è un altro. Le aziende erano già solite compiere delle verifiche interne coi dati a loro disposizione: l’innovazione, tuttavia, passa anche dall’analisi dei big data. Prima gli investitori che desideravano valutare partnership erano costretti a basarsi solo sui comunicati delle etichette: da oggi, con questo servizio, il re è nudo”
Sicuramente questa notizia va accolta con entusiasmo perché si potrà realmente quantificare il successo di una canzone, di un album o di un’artista.
Sicuramente questo cambiamento renderà la vita un po’ più dura agli uffici stampa che dovranno fare a meno di frasi ad effetto come “dopo l’eccezionale successo…” e “boom di vendite per…“, ma del resto non è colpa loro, vengono pagati per promuovere un album; PROMOZIONE per l’appunto, possono mica scrivere “con il discreto numero di copie vendute…“. Sicuramente sapranno cavarsela e inventare nuovi modi di comunicare visto che sono tutti fuoriclasse del settore.
La notizia che a me lascia perplesso è il fatto che presto il dato dello streaming verrà espanso anche agli album e non più ai soli singoli. Questa notizia, unità a quella di qualche mese qua (la trovate qui) dell’inserimento delle visualizzazioni dei video di YouTube nei dati di vendita al pari dello streaming continua a generare in me dubbi.
E´noto io non sono propriamente un fan dei servizi di streaming, capisco che sia il “nuovo” che avanza ma non credo di essere nemmeno così vecchio da non comprendere quando il nuovo che avanza lo fa un tantino senza bussola ne direzione.
Oggi il duro lavoro di un’artista (chiunque esso sia e quanti soldi gli girino attorno poco conta nei fatti, al massimo nei risultati) è qualcosa che sfugge a chi usufruisce di musica.
Gli ascoltatori, soprattutto i più giovani, non conoscono il duro processo che c’è dietro alla nascita di un disco: lo scrivere canzoni, il taglia e cuci per renderle il quanto più vicino possibile alla propria idea di “belle”, i provini da fare, la produzione, i soldi spesi tra studi di registrazione, mixaggio e quindi la ricerca di un’etichetta o casa discografica (se già non c’è), il lancio, la pubblicità, l’ufficio stampa che presenti il lavoro fatto alla stampa (web e cartacea), i pochissimi (nulli direi) spazi in televisione, gli uffici stampa radio da pagare pregando che il pezzo passi (e se sei emergente inizia a contare già da ora le poche radio che passeranno il frutto del tuo lavoro), il videoclip, la cura dei social, la preparazione di un tour, la ricerca dei musicisti e la ricerca di dove suonare…
Insomma fare un disco ora non è come andare a lavorare in fabbrica per carità, ma ci si sta andando sempre più vicini, con la semplice differenza che se lavori in fabbrica il cxxo che ti fai è riconosciuto da tutti, se fai musica siamo ancora al “Che lavoro fai veramente?“, “Beato te che non fai un cxxxo e ti diverti lavorando..” e via dicendo.
Oggi chi ascolta musica in streaming salta come un coniglio impazzito da una canzone all’altra, spesso mette in riproduzione direttamente una playlist già preparata dal servizio di turno e via… l’album? difficilmente viene ascoltato nella sua interezza come un’opera realizzata per essere ascoltata dalla prima all’ultima canzone, come il lavoro di due anni o giù di lì.
Le canzoni non sono più fatte per durare, i singoli di reale successo sono sempre più rari e i numeri li fanno solo artisti consolidati o usciti da un talent show… per quelli meno “esposti” manca proprio l’affezione verso il cantante.
Tutto sta cambiando è vero, ma non sta cambiando nel migliore dei modi e non è detto che bisogna adeguarsi in tutto per tutto a ciò.
Oggi più che mai con l’arrivo delle reali cifre di vendita credo serva una netta distinzione tra il venduto (fisico e digitale) e lo streaming perché se ne può dire quello che si vuole ma non sono la stessa cosa e non vanno messi nello stesso calderone.
Comprare un disco vuol dire uscire di casa e recarsi in un negozio, spendere dei soldi e compiere una serie di azioni che riconoscono un valore a quello che l’artista ha realizzato. Farlo in digitale è meno faticoso ma richiede comunque una spesa, minore certo, ma in fondo è giusto così visto che di concreto e tangibile in mano non avremo nulla.
Ascoltare in streaming invece cosa ci richiede? avere un app gratuita sul nostro smartphone oppure fare un giro su YouTube dal computer di casa, scegliere cosa ascoltare e, in molti casi, far andare la musica a random. Costo zero.
Per questo io continuo a credere che come esiste una classifica dei dischi più venduti, una dei vinili (da poco reintrodotta) debbano esistere due diverse tipologie di classifiche per gli ACQUISTO e per lo streaming (che sia da Spotify, Deezer, YouTube etc etc).
Perché i fatti dimostrano che 100 ascolti in streaming non sono 1 brano venduto, semplicemente sono solo 100 ascolti di una canzone gratuitamente.
Trovo totalmente sbagliato che si diano certificazioni di diamante, multi platino, platino ed oro ai singoli (ed ora anche agli album… tremo) considerando anche lo streaming. NO, ripeto lo streaming è un ascolto gratuito, una certificazione è un riconoscimento per il successo di qualcosa… vogliamo certificare anche lo streaming? Bene facciamolo a parte.
E non venite a dirmi che la gente paga 10 euro al mese per usare Spotify o qualche altro servizio perché se nel mondo ci sono circa 100 milioni di utenti del solo Spotify e di questi solo 30 milioni usufruiscono del servizio a pagamento, figuriamoci quanto è ridotto il numero degli abbonati nella nostra Italia (ma i servizi di streaming non rilasciano questi dati e se per è questo nemmeno interviste, ci abbiamo provato) che, dati alla mano, è tra i paesi europei con i numeri più basso sullo streaming rispetto agli paesi.
Non mi venite a dire nemmeno che siccome queste persone pagano la connessione ad internet (da fisso o da cellulare), perché quella la pagherebbero ugualmente per WhatsApp o altro.
Certo le piattaforme di streaming tra abbonamenti e (soprattutto sponsor) guadagnano. L’artista invece guadagna 0,0008 centesimi ad ascolto quindi se non sei un artista sulla cresta dell’onda ti ci paghi giusto una pizza.
Negli ultimi mesi qualcosa a mio avviso è cambiato nel difficile rapporto tra streaming e certificazioni, si dice di no, ma io vedo con i miei occhi che fino allo scorso anno ci trovavamo a scrivere spesso articoli con nel titolo frasi come “piovono certificazioni“, oggi non si arriva nemmeno a dieci certificazioni italiane a settimana. Io ho la percezione che l’apporto dello streaming sia stato regolato da limitazioni che prima non c’erano, ciò nonostante quando arrivano i comunicati stampa si parla ancora di “oltre 25.000 copie vendute” dando una percezione non completamente realistica del successo di un brano perché ci sono vari altri fattori in campo, due su tutti: i fandom enormi e agguerriti di alcuni artisti e il fatto che, alcune canzoni vengono inserite in delle playlist come hit del momento; queste playlist sono molto ascoltate e, di conseguenza, quei brani ottengono ascolti che magari singolarmente non avrebbero. Parliamoci chiaro e senza tanti giri di parole: molti singoli oggi ottengono dischi d’oro e platino con un peso dello streaming che si aggira attorno anche al 70% se non di più.
Io continuo a rimanere del parere che le certificazioni siano un attestato, un premio, quindi prima che arrivi anche YouTube e lo streaming in digitale degli album per me bisognerebbe fare una scelta decisa e netta per chiarezza verso il pubblico.
Le ipotesi? io ne vedo due… o separare le due classifiche (vendite e streaming) e, volendo, assegnare certificazioni a parte come fa Vevo per esempio, oppure dichiarare per ogni certificazione rilasciata con trasparenza la percentuale dovuta alle vendite e quella allo streaming.
Questo non ci ridarà sicuramente un ascolto più attento dei dischi, una rivalutazione dell’opera complessiva di un album, ma del resto come dicevamo i tempi cambiano, però almeno avremo guadagnato una maggior chiarezza su chi muove il mercato al punto dal far anche spendere dei soldi alle persone e chi detta “mode”.