Whitney Houston.
Oggi avresti avuto 53 anni, oggi il mondo intero ti avrebbe fatto gli auguri come una grande star merita… ed invece oggi il mondo a malapena si ricorda di te.
Qualche coccodrillo in qualche tg che deve riempire la sua mezz’ora, qualche video in più nelle tv tematiche, qualche speaker, magari giovanissimo, che leggerà qualcuno dei tuoi records su Wikipedia a supporto del passaggio di una delle tue tante hits.
E chi ti ha invece tanto amata come si consola?
Personalmente, e ti ho amata tanto, non mi basta risentire uno dei tuoi pezzi, non mi è sufficiente per nulla. Sto li a sperare che arrivi un disco nuovo che non arriverà, come se tu non te ne fossi andata quel giorno di Febbraio del 2012. Non mi basta cercare tra le tantissime belle voci tra cui spulcio per lavoro oltre che per diletto cercare una che mi emozioni allo stesso modo, come sapevi fare tu vincendo persino la mia reticenza verso quelle che io chiamo le “alluccaiole” , concedendomi una licenza dialettale per far si che chi mi legge capisca esattamente il disappunto che le mie orecchie hanno di fronte a chi usa la voce come se dovesse essere lei lo strumento per arrivare e non le canzoni che proponi e per le quali essa è al servizio.
Alzi se il pezzo lo richiede, e lo fai con garbo, accompagnando la melodia, come sapevi fare tu Whitney e poche altre prima e dopo di te, spesso in stili o generi non così popolari. Perchè ci voleva la tua voce, in grado di tenere altissimo il pathos per non farmi cambiare stazione o canale durante quegli interminabili 40 secondi di I will always love you dove toccavi le stelle, o per non farmi stridere i denti nei picchi altissimi di I have nothing, o nella rincorsa senza fiato del bridge di I’m your baby tonight, o nel lunghissimo finale di All the man that i need, con falsetto finale per non farsi mancare nulla.
Ci volevi tu per tenere testa in duetto ad un mito come Stevie Wonder per quella We didn’t know che in Italia nemmeno uscì, se non nell’album, ma che ogni volta che rivedo sul tubo, durante l’esibizione che ne desti assieme all’Arsenio Hall Show, mi vengono quasi le lacrime.
In un mondo ’80 colorato e leggero tu vincevi con brani che sono rimasti pietre miliari del soul, dell’r’n’b e del pop come Greatest love of all oppure All at once o Saving all my love for you.
Che ne sanno queste nuove starlette che incidono canzoni che poi dal vivo non sanno cantare o raggirano per non pigliare quella nota che magari il fan è li per sentire ed il critico come me si domanda: “fammi vedere se sto ultrasuono lo sai fare davvero!”
Raramente ho avuto risposta positiva in merito, come sapevi darmi tu. Poi certo, mi domando anche se l’ultima Whitney, quella che ormai non riusciva nemmeno a cantare due ottave più basse avrebbe potuto stupirmi ancora, se quella la cui vita ed i suoi demoni che l’hanno strappata alle beltà che era in grado di dare, avrebbe mai potuto donare nuovo giubilo per le orecchie. Ed è allora che ascolto il tuo ultimo lavoro, I look to you, di fine 2009 e mi rendo conto che pure debilitata le mettevi in riga tutte. Era proprio la tua pasta vocale. Certo si era ispessita, mancava quasi completamente di accenti che per te erano pane quotidiano, ma aveva raccolto un vissuto che le forniva una trama scura, troppo piacevole da ascoltare da non far capire a nessuno che quella era la trama della tua vita, diventata scura anch’essa, malata, tristemente dipendente. Vorrei scrivere qui tutti i tuoi records per i giovinetti che, forse, mi leggeranno ma per quello gli lascio Wikipedia e lo speaker impreparato.
Io, che eppur non sono matusa, spero con queste due righe solo di aver dato loro voglia di andarti a riscoprire, di cercare i tuoi dischi, le tue performance. Se già questo accade ad uno per ogni 10 sarà come averti fatto il regalo per questo compleanno di cui non riceverò mai un invito.