Oggi voglio parlarvi di un gruppo che, a onor del vero, non può essere etichettato come facente parte della scena rap. Anzi, a pensarci bene, non può essere etichettato affatto: i 99 Posse.
La posse, cresciuta all’ombra del centro sociale Officina 99 a Napoli, ha da sempre mescolato non una ma cento influenze diverse e regalato una mezza certezza: spesso, molto spesso, Zulu rappa. E molto bene, aggiungerei. Altre connessioni col mondo del rap italiano dei dissing, delle invidie e della costante quanto illogica difesa del quartierino? Nessuna. Stiamo parlando di un gruppo che ha fatto della condivisione e dell’accoglienza il suo cavallo di battaglia, non di tre nerd imborghesiti che si fanno i selfie in Piazza Duomo.
In un mondo della musica italica aggrovigliato da sempre alle proprie prudenti visioni ripetute all’infinito, i 99 Posse sono stati qualcosa di diverso e probabilmente unico nel suo genere, presentando un groove meticciato che profumava tanto di mediterraneo e vasci quanto di rap, reggae, ragamuffin e voglia di remare in direzione ostinata e contraria. Un meltin pot in musica nato sull’onda delle posse, della Pantera e di una sinistra antagonista che improvvisamente usciva dalla nicchia dell’area di provenienza e invadeva il belpaese. Assalti Frontali, Africa Unite, Almamegretta, Mau Mau, Casinò Royale, Sangue Misto, Banda Bassotti, giusto per citare i primi che mi vengono in mente, ma ce ne sono molti altri. Tutte band emerse in piena sintonia con lo sviluppo dei movimenti dei centri sociali e della sinistra extraparlamentare, tutti gruppi che proponevano tematiche legate alla controinformazione, all’impegno e ai principi della cittadinanza attiva.
Fenomeni nati nell’underground improvvisamente balzati in classifica, con concerti seguiti in tutto lo stivale e video passati dall’allora nascente MTV Italia. Un bel fermento davvero per chi, come me, ebbe la fortuna di vivere quella stralunata primavera. Una primavera anche un po’ ipocrita, se vogliamo, visto che di pari passo ai nobili messaggi proposti si era scatenata la guerra al venduto, cioè a chi al momento aveva più successo. Quindi di fatto piacevi al movimento finché ti auto producevi e venivano a vederti in quattro ma potevi immediatamente divenire inviso nel momento in cui i soliti quattro diventavano otto, oppure firmavi per qualche ‘diavolo’ di major. Cose già viste e vecchie come la musica (capitarono qualche anno prima anche in Francia quando gruppi come Mano Negra, Les Negresses Vertes e Satelites si accasarono presso etichette importanti) ma assai nuove per l’Italia dell’epoca
Alcuni di questi gruppi negli anni sono scomparsi, altri hanno lasciato l’attivismo in cantina per dedicarsi alla più fruttuosa strada del pop, altri ancora sono rimasti duri e puri e continuano tutt’oggi la propria attività artistica, seppur con tutte le difficoltà figlie della rivoluzione di Napster e del deserto culturale in cui il paese è piombato dopo la formazione della tanto agognata Europa dei capitali.
A quest’ultima categoria, quella dei fedeli sempre e comunque alla linea, appartengono senza ombra di dubbio i 99 Posse.
Capitanati dall’enorme Luca “Zulu” Persico – che più che un cantante sembra un heel wrestler di quelli che commentano Posa e Franchini alla televisione – imbelliti dalla voce un po’ bjorkeska della bella Meg, sporcati dalle sapienti forchettate dub di Marco Messina e reggaezzati dal basso di Massimo Jovine, hanno rappresentato forse la sintesi più azzeccata del binomio musica-dissenso di quei difficili ma ancora vitali anni 90. Dischi di successo, cartoline zapatiste, lotte, manifestazioni, viaggi in Palestina, problemi personali, tensioni e liti fino allo scioglimento, avvenuto ufficialmente nel 2004 anche se da almeno tre anni la band non era più da considerarsi tale. Finita ufficiosamente nel 2001, l’anno del G8, dell’11 settembre e dell’invasione dell’Afghanistan. L’anno nero in cui il potere ha mostrato muscoli e arroganza, spazzando via ogni voce altra, etichettando il dissenso, qualsiasi dissenso, sotto la voce terrorismo. L’anno in cui il mondo libero è stato costretto alla resa, la follia ha vinto, l’ideale è morto e a noi del film di quegli anni restano soltanto poche manciate di belle canzoni, le prediche della buona anima di Don Gallo e l’indelebile immagine di Carlo Giuliani a terra come titolo di coda.
Un anno scioccante, come scioccante è stata la fine dei 99 Posse per i suoi membri, andati avanti con progetti più o meno riusciti, lotte personali contro i propri fantasmi e un trionfale ritorno nel 2012 con l’ album Cattivi Guagliunii. Senza più Meg, che ha preso altre strade, un po’ spellati dalla vita ma comunque desiderosi di continuare il proprio viaggio di musica e libertà.
Da allora Zulu e compagni sono di nuovo in attività, con centinaia di date in giro per l’Italia, una nuova uscita discografica (Curre Curre Guagliò 2.0, che a distanza di 20 anni ripropone i brani contenuti nel loro disco d’esordio completamente rivisitati e con la collaborazione di numerosi artisti ed amici, da J Ax a Enzo Avitabile passando per Alborosie, Roy Paci, Caparezza e un sacco di altre ugole note) e mille altri progetti in cantiere.
La cosa non può che farmi piacere perché, nonostante gli anni trascorsi, rabbia, freschezza e intenti sono rimasti gli stessi. E in questi anni bui – ma così bui che a confronto il 2001 ci sembra un oasi di rivoluzionari ricolmi di idee e motivazioni – eccellenze in musica come i 99 Posse andrebbero non solo difesi ma clonati, clonati per forgiare quell’esercito di giovani consapevoli di cui l’Italiota di domani, ahimé, avrà persino più bisogno dell’Italietta di oggi.