Il pop italiano mainstream, con tutte le sue varianti trite e ritrite, non mi ha mai emozionato. Lo trovo spesso piatto nei testi e musicalmente privo di spunti originali, con arrangiamenti saccheggiati da quello che al momento tira all’estero, però copiati male. Quando sento, ad esempio, un pezzo di Ramazzotti alla radio mi viene da pensare a un macabro rito vodoo in un centro commerciale. Mi spiace, è più forte di me.
Anche la così detta scuola italiana dei cantautori mi ha sempre lasciato perplesso. Tolti De André, Dalla e qualcosa del primo Finardi non è che mi sia mai spellato le mani più di tanto. Sarà che faccio fatica ad apprezzare un certo tipo di messaggio sinistrorso cantato con il portafoglio ben saldo a destra, e fatto più per suonare alla festa dell’Unità che per un reale collocazione sociale.
Questo per dire che io e la musica italiana da classifica ci siamo sempre guardati un po’ di traverso, come cagnacci pulciosi che amano scodinzolare in direzione opposta. Ma c’è sempre un’eccezione a sputtanare la regola. Nel mio caso quell’eccezione si chiama Luca Carboni. Sì, lo so, i miei affezionati lettori che si sono sciroppati le mia appassionate pagine sul reggae magari faticheranno a crederlo, ma la musica di Luca per me è stata importante quasi quanto quella di Marley. E ora vi spiego perché.
Carboni è un vero outsider, che non vuol dire auto prodursi il disco, sfasciare il palco e tatuarsi anche il buco del culo, ma avere il coraggio e la costanza di seguire una propria visione musicale coerente, senza accettare gli eterni compromessi tipici di chiunque desideri affermarsi nel mercato discografico, oggi come trent’anni fa.
Avete mai visto Luca Carboni a Sanremo? E pensate che sfinge Baudo o chi per lui non glielo abbiano mai chiesto?
Lo avete mai sorpreso a confessare le proprie sfighe in tv o su qualche rotocalco?
L’avete mai sentito cambiare il proprio suono morbido e intimista per cavalcare le mode? Fare il paraculo per passare in radio?
No, appunto. Eppure di cose ne ha dette e la sua anima l’ha sempre condivisa nelle proprie canzoni.
I suoi testi sussurrati hanno parlato di tutto e di più. Si è soffermato sul problema delle dipendenze già negli anni ottanta con la splendida Silvia lo sai. Ha fotografato il paese meglio di tanti sociologi con il suo Inno Nazionale. Ha capito prima degli altri come per sopravvivere a questo mondo di fenomeni servisse un Fisico Bestiale. Ha occhieggiato al nomadismo prima che questa società ci costringesse a viverlo sulla nostra pelle, ricordandoci che alla fine è solo questa carovana l’unica casa che ho. Che vuol dire che gli affetti, la propria essenza e i propri coglioni sono l’unica solida bussola su cui basare il nostro percorso nella vita. E sempre lui ci ha ricordato, e mai come oggi ce n’è un gran bisogno, che non finisce mica il mondo dove finiscono le strade. Che è un modo elegante, profondo e garbato di tarare il nostro sentire la madre terra su una base più animista e meno schiava del progresso e delle sue follie.
E ancora: in una scena musicale italiana dove i pezzi d’amore sono di una banalità sconcertante, Carboni è riuscito a fare denuncia sociale chiedendo alla sua donna mi ami davvero.
Mi fermo qui ma potrei andare avanti all’infinito nell’evidenziare le particolarità di un artista assolutamente unico nel panorama italiano. A voi, giovani hipster che impazzite per Cat Power, Scott Matthew e la buona anima di Elliot Smith, consiglio di riscoprire tutta la discografia di Carboni. Ci troverete delle sorprese assai gradite.
Da qualche giorno l’artista bolognese è tornato con un nuovo disco, Pop-up. Sono al terzo ascolto e devo dire che il livello è altissimo, come e più del solito. C’è solo un filo di elettronica in più, se riesco lo recensirò a breve su queste pagine.
Probabilmente questo album non svetterà in classifica ma non credo la cosa sia un problema per Luca. Superati i 50 anni, con una carriera d’oro alle spalle, dubito che il cantautore bolognese registri i dischi con la smania di affermarsi a tutti i costi. Certo, se vende sarà contento, come tutti, ma la motivazione iniziale non è sicuramente quella. Come mi disse il mio amico Remo Remotti – pace all’anima sua – dopo un reading che facemmo insieme a Bergamo dieci anni fa: “a ragazzì, il bello di invecchiare è che puoi fare un po’ il cazzo che te pare e nessuno s’azzarda a dirte niente”.
Chiudo con un aneddoto personale, da vero fan, una cosa che pochi sanno ma quei pochi – conoscendo il lavoro che faccio e gli anni passati a scrivere di musica – ancora si stupiscono che non l’abbia mai raccontato a Carboni. Che vi devo dire, non mi è mai capitato di incontrarlo dopo quella volta e probabilmente, anche se fosse successo, avrei evitato, che lui sicuramente nemmeno si ricorda. Comunque, veniamo ai fatti: era il luglio del 1992, avevo diciassette anni e per la prima volta i miei mi avevano lasciato andare in vacanza da solo con gli amici. Destinazione Isola d’Elba.
In quell’estate Luca stava spopolando in tutto il paese con il disco Carboni e la hit Mare Mare. Adoravo quella canzone.
Un pomeriggio me ne stavo sulla spiaggia di Capoliveri con i miei amici a prendere il sole e giocare rumorosamente a pallone.
A un certo punto uscì dall’acqua la ragazza più bella che avessi mai visto al mondo dopo mia moglie, che però avrei conosciuto solo 20 anni dopo. Giocoforza, ai tempi quella biondina era la numero uno. Subito i miei amici si gettarono a corpo morto intorno alla ragazza, una roba da corsa dei tori di Pamplona. Andai anche io lì in mezzo ma era difficile farsi notare fra quel bordello di giovani maschi competitivi alla loro prima vacanza. E io son sempre stato uno che ha fatto una gran fatica a urlare. Così me ne tornai sull’asciugamano con l’aria un po’ triste, tipica degli sconfitti.
Mentre mi commiseravo di brutto notai alla mia destra, a un paio di metri da me, un tipo in canottiera bianca, jeans corti, anfibi e occhiali da sole. Insieme a lui una bella ragazza dai capelli mossi. Cazzo, ma… ma… era Luca Carboni!!! Stava assistendo alla scena divertito e mi guardò come a dire “ti sei arreso, ragazzo”.
In effetti era proprio così. Due a zero a tavolino, sconfitto senza nemmeno scendere in campo. Con tutta la tristezza dei miei introspettivi 17 anni mi alzai allontanandomi dal casino, una lunga passeggiata sulla spiaggia per dimenticare i miei acerbi tormenti amorosi. Giuro che mentre camminavo sulla sabbia canticchiavo Mare Mare.
E la stavo canticchiando ancora quando la biondina si sganciò dai miei amici e venne verso di me sorridendo. Mi chiese perché fossi così triste, aveva un sorriso che ti tagliava in due. Con l’innocenza dello sconfitto scrollai le spalle e abbassai la testa. Lei a quel punto si slacciò un cordino di cuoio che portava al braccio e lo annodò al mio polso. Con un inglese stentato si presentò: Daniela, sedici anni, barbie svizzera di raro splendore. Poi sorrise ancora e mi diede appuntamento per la sera, prima di ritornare dalle amiche che l’aspettavano poco distante. Come diceva lo straniero al Drugo nel Grande Lebowski, a volte sei tu che mangi l’orso e a volte è l’orso che mangia te; evidentemente quella volta toccava a me sedere al tavolo dei sazi.
Quando ritornai dai miei amici venni salutato come il re dei bastardi fortunati. Ero frastornato, mi girai per vedere se Luca Carboni fosse ancora in spiaggia ma se n’era andato. Sinceramente in quel momento l’aver incontrato uno dei miei idoli adolescenziali valeva molto meno del fiore di svizzerina che mi aspettava dopo cena. Scusa Luca, questione di ormoni.
Quella sera non la dimenticherò mai nella vita. Mi innamorai per la prima volta e scoprii cose che non conoscevo. Fu bellissimo e speciale. Mentre riaccompagnavo Daniela a casa, davvero tre metri sopra il cielo dieci anni prima di Moccia, nella piazzetta di Capoliveri in chi mi imbattei? Ve lo giuro, ancora in Carboni. Ci mise un po’ a mettermi a fuoco e realizzare che il tipo in down d’amore del pomeriggio era lo stesso che adesso stava passeggiando sotto la luna con il fiore di biondina che solo qualche ora prima sembrava inarrivabile. Una volta riconosciutomi mi sorrise a trentadue denti e mi fece l’occhiolino. Dubito si ricordi di questo aneddoto, una cosa di poco conto, per lui certamente di nessuna importanza. Ma per me, ragazzi, per me fu diverso. Quella notte diventai uomo. Dai non esageriamo, diciamo mezzo uomo. E fu abbastanza facile. È sull’altra metà che sto ancora lavorando.
Che altro aggiungere? Con Daniela nei mesi successivi provammo a portare avanti una relazione a distanza ma la giovane età e lo scarso servizio ferroviario Genova-Zurigo la stoppò sul nascere.
Con Luca Carboni andò decisamente meglio: a distanza di più di vent’anni posso ancora consolarmi con le sue splendide canzoni.