Partiamo da una premessa: realizzare un buon film su un artista complesso e sfaccettato come De André è oggettivamente difficile e apre il fianco a critiche e perplessità ancor prima della sua proiezione. Quindi complimenti al regista di Principe libero, Luca Facchini, e a tutta la sua troupe per il coraggio.
Un altro problema, nel cimentarsi in un biopic di questa portata, è il rischio, sempre dietro l’angolo, di proseguire la canonizzazione di Fabrizio iniziata subito dopo la sua morte e proseguita di anno in anno fino ai giorni nostri. Ormai De Andrè è per tutti il santo che perse l’aureola e andò a cercarla nelle bettole della città. Quello bello, geniale e senza difetti. Fine. Una santificazione tanto dell’uomo quanto dell’artista ben lontana dall’essenza del cantautore, e che a lui certamente non sarebbe piaciuta. Anzi, probabilmente gli avrebbe dato addirittura fastidio.
Nonostante queste premesse, e nonostante un cast di attori giovani, poco conosciuti e lontani anni luce dal mondo in cui si muoveva Faber, bisogna ammettere che Principe Libero sta insieme con una certa coerenza e in certi momenti riesce pure a emozionare. In altri cade invece vittima della sindrome da fiction Rai, ma temo che questo fosse inevitabile.
La trama è lineare e assai fedele alla storia; vengono toccate le tappe salienti della vita e della carriera di Fabrizio, dal complesso ma affettuoso rapporto col padre, all’amicizia con un giovane Paolo Villaggio, dall’incontro con Tenco a quello con il poeta anarchico Riccardo Mannerini, senza scordare la complessa relazione con la prima moglie Puny, la nascita del figlio Cristiano e il successo raggiunto grazie all’interpretazione fatta da Mina di La Canzone di Marinella. E ancora: l’incontro con l’amata Dori Ghezzi, la ritrosia nell’esibirsi davanti al pubblico, il sogno di una vita bucolica in Sardegna, la nascita della seconda figlia Luvi, il rapimento, la lotta contro un alcolismo sempre più ingombrante.
Sullo sfondo, ad accompagnare l’inquieto cantautore attraverso queste istantanee sparse di tre decenni di vita, l’onnipresente sigaretta e il bicchiere di whisky, veri e propri rosari laici di ogni maudit che si rispetti.
A interpretare Faber l’attore Luca Marinelli, la cui totale mancanza di accento genovese e un impercettibile flessione romanesca è stata a lungo discussa e mugugnata qui in città. Alcuni, esagerando, sono arrivati a ironizzare che De André nel film parli come Er Monnezza. Esagerati. È comunque vero che manca completamente l’accento tipico della nostra parlata, un aspetto che forse avrebbe reso il personaggio più aderente alla realtà e che denota tanto un certo pressapochismo nei dettagli quanto un segno di poco riguardo nei confronti della città. Voglio dire: nessuno farebbe un film su Pino Daniele o, che so, Franco Califano con un attore dall’accento milanese o torinese. Di contro, è bene sottolineare che il napoletano o il romano sono dialetti vivi e tuttora parlati nelle rispettive città mentre il genovese è una lingua, ahimè, ormai morta e sepolta.
Scaramucce campanilistiche a parte, resta il fatto che Marinelli faccia un ottimo lavoro, portando sullo schermo un De André sufficientemente verosimile eppure personale. Che è esattamente quello che fanno gli attori bravi e preparati.
Buona anche la prova di Gianluca Gobbi che interpreta Paolo Villaggio, così come quella di Valentina Bellé (Dori Ghezzi) ed Elena Radoninich (la sofisticata Enrica Puny Rignon). Un po’ troppo legnoso e fumettistico invece Matteo Martari nella sua interpretazione di Luigi Tenco.
La regia di Luca Facchini è solida e si muove senza prendersi troppi rischi fra l’onore di raccontare forse il più grande cantautore italiano di sempre e l’evidenza di trovarsi comunque a girare uno show per la Rai, con tutto ciò che questo comporta. E allora si resta in bilico, fra la voglia di sorprendere e qualche faciloneria tipica delle fiction nazional popolari.
Certamente il film è superiore ad altri italici biopic realizzati in precedenza. Ancora ricordo quello sul povero Rino Gaetano, che una sceneggiatura folle e un Santamaria rigido come la sella di un cosacco avevano trasformato in una specie di Jim Morrison che vagava in acido sui monti della Sila alla ricerca di un cielo sempre più blu. Per non parlare di quel pastrocchio stile CentoVetrine sulla bella Dalidà.
Alla fine, e non senza qualche apnea narrativa, Principe Libero riesce invece nel suo difficile compito, e cioè accontentare tutti senza esaltare nessuno. C’è il rigore storico ma senza troppo approfondire. Ci sono gli attori bravi ma senza strafare. C’è la musica di Faber ma senza scendere troppo nei pezzi più difficili da razionalizzare nell’immediato. C’è il poeta di Genova e degli ultimi ma epurato di un po’ di sale e asperità per essere più digeribile al pubblico generalista della fascia serale.
È un po’ come baciare la più bella della scuola che però, appena allunghi le mani, si scosta e ti lascia appeso. E poi riprende a baciarti, e a negarsi appena la sfiori. Ancora e ancora. E alla fine se ne va. Ora dimmi: ti è piaciuto baciarla? Ovviamente sì. Lo rifaresti? Certamente. Ti senti appagato? No, manca decisamente qualcosa…
Ecco, questo è Principe Libero; un film che pur non entusiasmando riesce a far rivivere alcuni di quei magici frammenti che fecero di Fabrizio De André il poeta italiano più importante del dopoguerra, un visionario capace di raccontare meglio di tutti la fumosa gamma di complicate sfumature che da sempre agitano quella stramba figura chiamata uomo.
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