Da questa settimana parte Rap chiAMA Italia, analisi alla ruggine di Federico Traversa aka F.T. Sandman con commenti cartavetrati sul mondo del rap Italiano. Il suo motto? Rispetto per alcuni, paura di nessuno.
Sandman ha scritto libri con i rapper Vacca e Babaman, supervisionato la realizzazione di Lo Spettro Storia di Fabri Fibra di Episch Porzioni (prima biografia autorizzata del rapper di Sinigaglia) e collaborato con Tormento e Ky-Mani Marley.
È autore, insieme ad Andrea Napoli, del best seller Who Shot Ya – dedicato agli omicidi dei due rapper americani Tupac Shakur e Notorious B.I.G.
Anni fa nel primo capitolo di Pelleossa – il libro che firmai con il rapper Vacca – scrissi che ritenevo l’esplosione del rap italiano una delle migliori cose capitate ai figli dei social network degli anni zero. Dopo anni senza denuncia sociale, senza contenuti e senza qualcosa di interessante in giro, le rime arrabbiate di tanti ragazzi schifati da questo nulla iniziarono a passare in radio con una certa continuità. Rime in cui si raccontavano realtà difficili, lavori di merda, ansie e tristezze di una generazione che pareva essere arrivata in ritardo per tutto. E rima dopo rima, questi poeti metropolitani fecero il botto, fino a finire in classifica e vendere più dischi di quegli stessi cantanti canonici che per anni l’avevano schifati. L’underground era salito a palazzo per fare rumore.
Gente tipo Fabri Fibra, che come una radio umana vomitava rime su tutte le contraddizioni di questo paese. Oppure Marracash, che raccontava senza censura quanto fosse merdoso crescere nel blocco della Barona. E poi i Club Dogo, Dargen D’Amico, Ghemon, Tormento, Vacca, i Truce, Inoki, eccetera eccetera fino all’ultimo MC che spruzzava rime velenose in un club di periferia.
Senza retorica, senza censura, a nastro. Certo, c’era già stato in precedenza qualche artista rap che aveva fatto il botto – Articolo 31, Sottotono e Piotta su tutti – ma il genere non era mai emerso in tutta la sua forza, come scena, proponendo non qualche mosca bianca ma tanti, tantissimi MC.
Insomma c’era da gioire al pensiero che i giovanissimi potessero finalmente confrontarsi con un sacco di roba stimolante, capace di scuotergli il cervello e rappresentare con fierezza la rabbia provata verso l’ingiusto mondo dei grandi. Un po’ com’era capitato a noi ultratrentenni di oggi con il fenomeno delle posse negli anni 90 o ai nostri genitori con il cantautorato nei settanta.
Dalle parole ritmate in quattro quarti dai rapper, le nuove generazioni potevano bere sorsate di consapevolezza, pensare, riconoscersi, trovare una bussola.
Per questo li avevo definiti i nuovi cantautori e ne salutavo felicemente l’affermazione.
Sono passati quasi cinque anni e devo chiedere scusa ai miei lettori. Il fenomeno non è stato di rottura come ci si auspicava, tutt’altro. Cioè una rottura c’è stata, soprattutto alle parti basse, ma è ben lontana da quello che ci si aspettava. Il rap nostrano, arrivato a palazzo, ha preso i 30 denari dal mondo dello showbiz si è venduto non solo l’anima ma anche il culo. E l’ha fatto senza timori, vergogna, compiaciuto e sotto la luce del sole.
Partiamo da Fabri Fibra, l’uomo nel mirino, il rapper scomodo che con i suoi testi al vetriolo raggiunge dopo anni di gavetta la prima posizione in classifica. L’esempio del Tarducci è forse il più limpido per spiegare cosa voglio dire quando parlo di prostituzione compiaciuta. E, attenzione, non mi riferisco alle ospitate da Fazio o ad Amici dopo aver sputato merda su quel tipo di televisione in almeno tre dischi. Nella vita è legittimo cambiare idea. Anche produrre l’album di Moreno non è poi questa gran colpa. Capita di lasciarsi andare a entusiasmi facili quando si gira intorno al marito di Costanzo. Cosa invece al Fibroga non si può perdonare è essere passato in poco più di 10 anni dai testi di L’Uomo nel Mirino a brani come Tranne Te oppure L’Italiano balla male. Un’involuzione del genere non ha giustificazioni. Come non l’ha dissare altri rapper la cui unica colpa è non aver venduto quanto lui e non poter esporre dischi d’oro in salotto. Qualità e vendite dei dischi legate a filo doppio? Sì, esattamente come è vero che gli extracomunitari ci rubano il lavoro e a Lockness vive un mostro marino femmina di nome Nessie.
Per non parlare dei Club Dogo. Dopo fieri anni di rap d’alta qualità, hanno lentamente decerebrato loro stessi, arrivando a proporre metriche da quinta elementare, al punto da arrivare a pensare che a scriverglieli sia la Minetti, che da quelle parti dicono sia di casa.
Anche Marracash, forse uno dei migliori del lotto, ha parecchio annacquato il proprio groove assassino, fino a decidere di prendersi una lunga pausa e tornare con un nuovo album, Status, in cui finalmente torna a rimare con l’intelligenza del passato.
Poi ci sono le nuove generazioni, figlie di cotanti padri, che arrivano al successo dopo una manciata di video e tante views comprate su YouTube. Il rap italico ha davvero bisogno di gente come Baby K, Moreno o Rocco Hunt?
Anche quelli bravi vengono contaminati da questa smania da disco d’oro e tormentone stereotipato per agganciare i passaggi radio. Emis Killa ne è un esempio vivissimo. Talento cristallino, songwriting sopra la media e tanta tecnica. Eppure la qualità dei suoi lavori scema album dopo album.
Il discorso su Fedez è più complesso, e lo affronteremo nelle prossime settimane.
Stesso discorso per i vari Gemitaiz, Nitro e compagnia cantante.
Molti, vista l’aria che tira nel mondo del rap, si sono messi a fare altro. Nesli non fa più rap da almeno tre dischi, si è spostato sui territori di un buon pop intelligente e tanti saluti a sdoppi e rime in battere. Vacca, dopo il trasferimento a Kingston, ha goduto della benedizione in levare e sta avvicinando il suo sound al reggae e alla dancehall con ottimi risultati. Esattamente come il suo amico Babaman, che dopo un passato da rapper ha abbracciato il reggae diventando l’italico paladino della cultura rastafariana.
Scelte decise e in linea con un progetto pensato che va rispettato.
I duri e puri del genere, quelli mai scesi a troppi compromessi, restano intanto fieramente nell’underground, vendendo meno ma guardandosi con più soddisfazione allo specchio rispetto ai colleghi che troneggiano in top ten. È il caso di Tormento, Kaos, Inoki, Esa e parecchi altri.
E allora la domanda sorge spontanea: il mondo del rap italico da classifica oggi a chi si può aggrappare per confezionare un prodotto che non sputtani il genere ma abbia le capacità di arrivare a più gente possibile? La risposta è avvilente ma, ahimé, indiscutibile: J-Ax. Paradossalmente, e nonostante i discussi battibecchi a The Voice con D.j Francesco, è ancora Alessandro Aleotti la figura più coerente nel mondo dell’hip hop, con dischi contaminati e che strizzano l’occhio anche alle mode del momento, ma a cui non si può non riconoscere testi profondi, azzeccati, mai banali e che non tradiscono il background da cui proviene.
Mentre aspettiamo che Salmo finisca la fase nerd da b-movie scadenti, Clementino faccia pace con l’italiano, Dargen riesca a mediare le innegabili capacità che possiede con il rendersi comprensibile ed Ensi e Ghemon arrivino finalmente alla gente, teniamoci quindi stretto J-AX e preghiamo per la sua salute.
Non è che ci resti molto altro.
Alla prossima..
F.