Ernia Buonanotte Testo & ConTesto. Oggi il nostro Prof di latino Davide Misiano analizza le delicate parole di Buonanotte, il brano più cantato e apprezzato del nuovo album di Ernia, Io non ho paura. A lui la parola…
Mi piace pensare che Ernia abbia sapientemente scelto questo preciso momento storico per parlare di aborto. O meglio non riesco a pensare che la sua ispirazione, certamente sincera, arrivi per caso adesso… Adesso che parlare di questo è anche un po’ schierarsi.
Ed è proprio questo coraggio ‘politico’ a valorizzare, a mio avviso, il testo di Buonanotte, un testo abilmente tenuto in bilico tra immediatezza e complessità: immediatezza delle parole e complessità del sentimento.
Le parole sono così naturali e secche, a tratti anche crude; eppure la gamma emozionale è più larga del previsto. Il sentimento di chi narra prende una strada impensata e costringe chi ascolta a chiedersi cosa significhi davvero, al di fuori di ogni edulcorata o banalizzante rielaborazione, una simile scelta.
Un padre canta un figlio mai avuto come se questo figlio ci fosse, come se l’assenza non fosse tale. Gli racconta cosa è stato e come sta andando avanti; non si concede attenuanti, non ha bisogno di montare artificiali o reboanti giustificazioni. Riferisce ciò che è stato e ciò che è, nella sua bruta verità.
Mentre gli parla, quel figlio sembra lì, quella paternità è ancora possibile. Un racconto straniante, quasi una compensazione della mente. Ernia canta una storia che ha direttamente vissuto, e ci fa capire che un’esperienza simile non passa mai, resta appiccicata alla pelle con la colla di un dolore che si è depositato e naturalizzato. Un dolore che resta lì, al suo posto naturale, come un altro pezzo di corpo da portarsi appresso.
Io non ho paura si intitola il nuovo album, ispirato anche nel progetto grafico all’opera omonima di Niccolò Ammaniti. E non c’è paura nell’affrontare un argomento scomodo, in un momento scomodo, con parole e sentimenti che non temono giudizio.
ERNIA BUONANOTTE: IL SIGNIFICATO DEL TESTO (PRIMA PARTE)
La canzone inizia e siamo dentro la scena, dentro quell’auto che li porta in ospedale. La voce di Ernia disegna un mite giorno di giugno, un abitacolo pieno solo di silenzi e una strada che non ammette ritorno.
Da subito empatizziamo con lui, un padre tenuto lontano dalla sala di ospedale in cui si compirà quanto ormai deciso. E da subito ci accorgiamo del privilegio di poter ascoltare una voce rara.
A buon diritto l’aborto è, per la società e per la legge, prima un’esperienza femminile: il corpo è della donna; la scelta è primariamente della donna; è il dolore della donna quello più narrato e oggetto di partecipazione. Questa canzone ci pone in una prospettiva altra, affascinante perché seconda, ma non certo inferiore per complessità.
Ernia confessa l’amarezza di non poter essere dentro quella stanza; denuncia che un padre rischia di “sentirsi fuori” sin dall’inizio e ha bisogno di capire perché.
Aveva un che di punitivo, tipo un messo in castigo
Ma nelle sale d’attesa ho capito
Temono che l’uomo possa fare pressione di qualche tipo
La mamma si è ripresa dopo un po’, nonostante
questo sia uno di quei fatti che fa l’anima pesante
E in genere il dolore passa, serve pazienza
Ma alcuni vengon colpiti con molta meno clemenza
di altri.
Il racconto di quel giorno è subito interrotto, forse proprio per spezzare la retorica della commemorazione. E il dialogo con il figlio inizia nel modo più sorprendente.
Il padre si presenta a un figlio che non lo ha mai conosciuto; ammette di non essere abituato a esprimere i suoi sentimenti, forse per una sorta di tara ereditaria. Eppure si apre senza freni: “Quando non sei nato, celavo i sentimenti. / È così che mi hanno educato”.
Quando un padre parla a un figlio adulto, assai spesso ama regalargli ricordi, colmando quei vuoti legati a un tempo di cui il figlio non può avere memoria: “Quando sei nato…”, è solito dirgli per ricostruire l’origine di tutto. Ernia dice, invece, ”Quando non sei nato…”. La negazione è certamente un macigno, ma la formula si aggancia a uno stilema che conosciamo e abbiamo l’impressione che il padre stia raccontando al figlio un vero inizio. In effetti, è l’inizio di un percorso dell’immaginazione, che trasforma l’assenza in presenza, la non vita in vita.
Eppure ti ho immaginato, eri bello nel mio pensiero
Qualcosa di leggero, libellule sul sentiero
E mi chiedevi della vita. Be’, la vita è una condanna
O almeno così sembra se hai il vizio di raccontarla.
Il ritornello è tutto giocato sull’oscillazione tra realtà e illusione. È il gioco della mente che rende possibile nel sogno quello che ci siamo addirittura negati nella realtà. Il padre sa che il figlio domani non ci sarà; eppure lo invita in quel luogo immaginario in cui è sempre possibile cercarsi e trovarsi. E lo fa con le parole ‘minime’ che un padre rivolge a un figlio. Parole brevi, cantate con una metrica larga ed elementare. Verbi basilari, che sembrano appartenere a un formulario infantile, primitivo e magico.
Mi sveglierò domani e tu non ci sarai
Ma quando cerchi me e cerco te, tu lo sai
dove potrai trovarmi, nei miei sogni che poi
è lì che vedo te e vedi me, come vuoi.
Pur nella semplicità risaltano i giochi retorici: “cerchi me (A) e cerco te (B)… vedo te (B) e vedi me (A)”. È quello che chiamiamo chiasmo, una disposizione a X che attira l’attenzione su questa dinamica del cercarsi e del trovarsi, dinamica impossibile sul piano reale, data la scelta dolorosa di cui parla la canzone, ma possibile sul piano dell’immaginazione dove c’è ancora il sogno di incrociarsi.
E poi il chiasmo è intensificato dal poliptoto: cerchi /cerco, vedo/vedi (stesso verbo con un cambio di desinenza). Questa figura avvicina ancora di più i due soggetti: un padre e un figlio mai avuto, che tendono l’uno verso l’altro allo stesso modo.
Così l’incontro avviene e il padre chiede persino al figlio di aiutarlo, di comprendere.
Non so esser così forte
Tu falle far la buonanotte
È il momento di più grande delicatezza. Il padre sembra quasi vergognarsi della sua incapacità di cullare il dolore della sua compagna; chiede così al figlio di farla riposare, di regalarle il conforto del sonno, di accarezzarle i pensieri e lenirle i dolori.
ERNIA BUONANOTTE: IL SIGNIFICATO DEL TESTO (SECONDA PARTE)
La seconda strofa ha un’apertura sociale. Lo stigma è frutto di ignoranza, di scarsa compassione, della presunzione con cui ci arroghiamo il diritto di giudicare la vita altrui, di ‘facilismo’ imbevuto di una morale pregiudicante. Ernia lo dice forte: “È facile ingrassare facendo la morale alla morale altrui”.
Ma presto ritorna dentro. Dentro il suo cuore a cercare ancora le ragioni. E non risparmia al figlio la verità: avevamo paura di rimanere strozzati da quella scelta, non eravamo pronti, non eravamo ancora completi dentro per scegliere di trovare un completamento fuori di noi.
C’è chi nei figli cerca un suo completamento
È come cercare fuori ciò che non trova al di dentro
Non fraintendermi, non voglio finir solo ma nemmeno
trovarmi a un certo punto dire “Amo perché devo”.
Mi hai dato un bel mal di testa
La paura di sbagliare, sai, paralizza la scelta
Perdonami davvero, ma se abbiamo preso questa
è stato anche per non doverci ritrovare ostaggi della stessa.
È dura a sentirsi, questa verità. Ma vale la pena dirla. Perché le nostre scelte non sono necessariamente giuste o sbagliate; troppo spesso sono le uniche che siamo in grado di prendere. Le scelte dipendono sempre dalla capacità che abbiamo di assumerle, da quanto siamo pronti. Ed essere impreparati non è sempre una colpa.
Tra l’altro, ci ricorda Ernia, una scelta così estrema, anche quando ponderata, lascia delle crepe inevitabili: così si affaccia lo spettro del ripensamento con cui bisogna imparare a convivere, il fantasma del rimorso, fatto di “se” ombrosi e invadenti.
Certe notti invento storie da dire
per distrarla, perché mamma ha certi crolli d’umore.
Se dovessi ritrovarmi a prendere una decisione,
lo terrei perché non vorrei rivederla soffrire.
Parla ancora della compagna, dei cedimenti di lei. Ma, di fatto, il suo dolore di padre non è meno grande, perché gravido anche della responsabilità di dover curare lei da una ferita inevitabilmente più profonda. È forte quel “Lo terrei perché non vorrei rivederla soffrire”, forte perché di una ruvida sincerità, rivolta proprio a chi per quella scelta oggi non c’è. Cambierei la scelta per lei, dice. Sembra quasi sottintendere un “Non per te”.
Questo padre sta dicendo al figlio che non poteva essere diversamente e che questa verità fa male a tutti. E allora arriva la notte a dare una possibilità a questo incontro mancato. Il sogno e il pensiero offrono l’occasione di porre rimedio a quello che non è stato: l’occasione di parlarsi, di chiarirsi, di esserci.
Ma quando dormo puoi parlarmi nei sogni,
chiedermi di noi se hai dei dubbi irrisolti
Ti dirò di ciò che è stato e che sarà
Ora fai la buonanotte, dormi nei pensieri di papà.
“Ora fai la buonanotte” è un invito dolcemente surreale. Tutta la canzone si trasforma in una surreale ninna nanna a chi non ha mai aperto gli occhi. Così il titolo della canzone finisce per rimbombare surrealmente nella coscienza, come un augurio di pace per tutti coloro che hanno un dolore da sopire. Un dolore con cui non possono e non vogliono smettere di convivere.
ConTESTO E SCRUTINIO FINALE
Buonanotte è una canzone utile.
È utile perché parla di aborto in maniera non convenzionale, illuminando la prospettiva di un padre che ha bisogno di parlare a un figlio mai avuto, anche solo per confessare una nuda, forse scomoda verità.
È utile perché parla di aborto ora che qualcuno, anche solo a scopo propagandistico, lancia frasi reazionarie, che sembrano minare delle conquiste che credevamo assodate.
Buonanotte è anche una canzone bella.
Chi segue la mia rubrica sa che non amo i testi che raccontano tutto e dicono tutto; preferisco quelli che lasciano spazio all’evocazione. E capirà se ho meno apprezzato la seconda parte del testo, in cui la richiesta di perdono o l’affacciarsi di un ripensamento hanno un po’ smorzato la sincerità coraggiosa della prima parte.
Ma Buonanotte è una bella canzone non solo perché parla di aborto. È bella perché ci ricorda che da una scelta complessa usciamo sempre lacerati. E che il dolore degli altri non deve mai essere giudicato, perché ha più dettagli di quanto possiamo immaginare.