8 Dicembre 2021
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8 Dicembre 2021

Testo&ConTesto: i brani di gIANMARIA ci parlano del segno meno dell’esistenza. Un moderno poeta maledetto?

gIANMARIA testi
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X FACTOR 2021 gIANMARIA testi… ritorna la rubrica Testo & ConTesto, in cui il nostro Prof di latino analizza i testi delle canzoni.

Oggi Davide Misiano dedica un’attenzione speciale alla penna più originale dell’ultima edizione di X Factor, analizzando alcuni dei suoi brani. A lui la parola…

gIANMARIA mi piace, nonostante a X Factor 2021 sia chiamato a fare tutto ciò che generalmente non mi piace. Vi spiego perché.

BARRE INEDITE SU PEZZI STORICI: CONTAMINAZIONI DA TALENT

In questa edizione del programma, che si distingue per una discreta eterogeneità di proposte artistiche ma per rari guizzi di intensità, gIANMARIA indossa gli abiti del cantautore rap che, privato della possibilità di esibire un inedito a sera, interviene su pezzi storici, talvolta pesantemente, pur di farci saggiare la sua penna.

Di essi risparmia spesso i ritornelli, le frasi gancio, e si appoggia su evoluzioni armoniche caratteristiche del brano per restituire il sapore dell’originale. Un’operazione a cui la televisione di consumo ci ha abituati negli ultimi anni.

Da Amici a X Factor non si contano più le contaminazioni ora audaci ora imbarazzanti, rispondenti, come si può ben intuire, a una mera logica televisiva: impossibile mandare in onda un cantautore puro, che magari non ha dalla sua una grande vocalità apprezzabile nelle cover; quindi, perché non camuffare le sue ‘barre’ sotto un’operazione di riadattamento, lusingando il pubblico con una base musicale di indubbia familiarità e con qualche parola già nota, evocativa di un’emozione antica?

Il pubblico si sdoppia tra la fruizione intermittente di un classico e un moderato contatto con un mondo autorale inedito, e si dispone così all’ascolto.

Ma l’operazione è chiaramente un espediente che non ha nulla di culturale. Il testo autorevole di partenza è negato nella sua autorità, tanto quanto lo sarebbe L’infinito di Leopardi se i suoi versi unici, frutto di una sensibilità consegnata al mondo nella sua più perfetta sintesi, fossero inframmezzati dai versi di qualunque, sia pur meritevole, poeta contemporaneo.

Le ‘barre’ nuove (quand’anche graziose), se rispettano il tema originale, sembrano un commento aggiunto, verboso e mai necessario; se stravolgono il tema originale, appaiono una violenza efferata, meritevole di una condanna dantesca.

Sul piano culturale un’operazione del genere non rinnova la memoria di un testo passato né agevola l’affermazione di un autore recente come artista autosufficiente. Tra l’altro è un’operazione che, fuori dalla TV, non fa nemmeno così grande mercato.

Premesso, quindi, che odio siffatti intrugli, proprio in occasione di uno di questi ho confermato la mia idea su gIANMARIA.

gIANMARIA testi: ALEXANDER PLATZ

Avevo intravisto il suo talento alle audizioni con I suicidi, brano di cui vi parlerò: un’opera di grande impatto, soprattutto perché capace di affrontare con una sincerità nuda un tema che può facilmente risultare morboso.

Ma quando ho sentito la sua versione di Alexander Platz, ho vissuto una commozione che ha vinto finanche sul mio pre-giudizio. L’interpretazione di Milva e le parole di Battiato rimanevano sullo sfondo come una citazione lontana che ritornava a ricordare una verità che non si spegne; e le parole ‘nuove’ sembravano un bilancio ancora struggente dell’eterna tragedia della guerra e dell’amore, dell’amore nella guerra e della guerra nell’amore.

Nelle parole di gIANMARIA c’era l’esperienza del confine, della frontiera, della distanza, dell’inverno meteorologico e di quello del cuore.

Un bilancio arrivato dalla voce di un diciannovenne scomposto, potente come quando un bambino ci sorprende con una verità che avevamo fatto di tutto per dimenticare. Non ha conosciuto la Germania del Muro quel ragazzino, ma ci ha parlato dei muri di ieri come di oggi, quasi che quel dolore gli sia stato consegnato in eredità.

Quanto fa freddo nel mese di febbraio
soprattutto dopo un viaggio?
La Germania non riposa
È occupata a far prendere freddo a tutti i suoi abitanti
E a quelli che ci passano,
Quelli che ci lasciano andare
Le persone più importanti
Non importa come andrà
Perché l’hanno fatto in tanti
E ti vedo così stanca
Sarà il viaggio così lungo
Sarà tutta la distanza
Sarà tutta la mia noia
che hai tirato con la corda
Vengo con te

Non solo quest’incipit toccante, ma tutto mi è sembrato grande. Anche il canto. E questo mi ha indotto a riascoltare i suoi brani e a voler condividere con voi le mie osservazioni.

gIANMARIA testi: I SUICIDI

Il testo di I suicidi è ben più che la denuncia di una questione sociale. Il testo è un’esperienza esistenziale.

Luca, Marco, Pietro e Anna non sono solo quattro storie che si snodano, benché di esse ci vengano forniti dei particolari quasi cronachistici: Laura è morta per troppo amore, Pietro per troppo poco; Marco non ha retto le difficoltà economiche, Anna si è annullata nella dedizione a una madre impegnata a sopravvivere.

Non sono solo quattro storie, dicevo. Sono le tappe di un processo di immedesimazione che si consuma nel cuore dell’autore: sono dei passaggi, momenti di un’unica esperienza che gIANMARIA, cantando, ricorda e insieme ripete.

È unica la storia: quella che l’artista percorre accanto a chi sceglie di rinunciare alla propria vita.

Egli, nel suo racconto, attraversa le loro vite come attraversa le loro morti: ne assorbe le parole, sale con loro i piani del palazzo, indugia al loro fianco nel momento che precede la scelta. Vive la vertigine dello stesso grattacielo.

È straordinariamente poetica la scelta iniziale di rappresentare i suicidi in vita e chiamarli suicidi. Sono già morti mentre compiono gli atti della schiavitù che li ha legati e ha negato loro il diritto di sperare:

I suicidi tutti in fila,
alla banca la mattina
per poter lasciar qualcosa ai figli
e non fagli vivere la stessa vita
Sono sopra i grattacieli (…)

I suicidi tutti in fila
pronti per farla finita

gIANMARIA sta percorrendo i loro stessi passi, ma questo si capirà meglio dopo. Intanto è chiaro che egli sente sulla sua pelle i quesiti gravidi di dissenso che il mondo scaglia contro i suicidi (Cosa ti ha portato a fare una scelta così poco rispettabile? / E così egoista (…). Pietro non scopa da un sacco / La gente pensa sia matto) e sente le loro desolate risposte, le ragioni di un cuore che sa di non avere più ragioni.

Chi canta misura esattamente i loro battiti, scandaglia i loro fallimenti. Li sente suoi. Condivide la loro morte, sperimenta dentro di sé il vuoto che ha ormai vinto quando la scelta è affermata e si è a un passo dal consumarla. È anche lui lì, nella stessa assenza che precede l’esecuzione finale:

E cosa vuoi per questo sabato sto in ‘sto palazzo
a parlare con loro e a guardar che si ammazzano
Nel mio film si ripete
Fino a qui tutto bene
Per ogni piano e ad ogni piano
perché è così che gli conviene.

Anche in questa chiusa la denuncia nasce dal ribaltamento, non dal pietismo.

Chi racconta si lascia investire quasi meccanicamente dal giudizio sommario che il mondo, incurante di essere ‘assassino dei suicidi’, preferisce riferire loro: nell’opinione dei più, la rinuncia alla guerra del vivere è un atto di convenienza, una facile fuga. E il poeta sta lì, in quel palazzo, a vivere tutto accanto ai suicidi: a condividere la morte e il giudizio del mondo.

Omeopatia la chiamerebbero gli antichi, qualcosa di più dell’empatia: non entrare nel sentimento altrui, ma vivere lo stesso sentimento. Così, ascoltando la canzone, non sentiamo la narrazione commovente o commossa di atti di suicidio, ma entriamo nelle stanze oscure degli animi di coloro che hanno dovuto rinunciare, proviamo la vertigine del cornicione.

Sentiamo la nuda verità della loro morte: il dramma della scelta e la colpa del mondo. gIANMARIA ci insegna che per capire dobbiamo un po’ morire.

Lui lo fa. Anche servendosi di un canto trascinato. Persino la metrica è spesso ametrica, perché è zoppa la marcia che conduce alla morte: rime mancate o ipermetre, accenti spostati e sillabe frante rendono così magistralmente la metafora della caduta.

SENZA SALIVA: TESTO & ConTESTO

Benché più facile e immediato, il testo di Senza Saliva, già a partire dal titolo, reca l’impronta della scrittura sincera dell’artista: ogni sensazione che gIANMARIA intende rappresentare è fisica, passa dal corpo, si fa esperienza.

L’incapacità di comunicare è al centro del brano: la festa “piena di cog****i” e di “rumore”, in cui si smarrisce la comunicazione tra i due, è ancora una volta la messa in scena di un disagio personale, di un conflitto tra l’artista e il mondo.

Infatti, al di là del tema dell’incomunicabilità, che è così frequente nelle scritture giovanili e che nel brano è ricondotto a una tradizionale dinamica di coppia, mi colpisce la maturità della riflessione sul valore delle parole:

Ma cosa cazzo urli in pubblico
Non ti ci posso più portare
Ogni silenzio l’ho voluto
Ti chiedo solo di farmi fare ma…

Le parole o la loro mancanza misurano spesso la distanza tra ciò che siamo e ciò che sono gli altri: spesso sono troppe e vuote, altre volte sono latitanti e capaci di ferire proprio nell’assenza. Ciò che resta è rumore.

… mi chiedi di non bere
ad un party in mezzo alla cenere
privandomi di tutto ciò che non serve, avaro
bloccandomi sul parlare perché
Mi perdo in più di mille strade vuote senza un senso
Sete senza benzina, resto ad un incrocio fermo
mi lascia pensare che basti un po’ di assenza
per trovare ciò che dire ma

Non ci parliamo, troppo rumore.

SCRUTINIO FINALE

Tra la cronaca del male e la rappresentazione figurativa del vuoto, tra la scelta del silenzio e il compiacimento della propria alienazione, gIANMARIA sembra farsi interprete di un maledettismo che è anche un po’ generazionale.

Ma io trovo che definirlo ‘maledetto’ sia attribuirgli una volontà quasi ‘politica’: in lui non c’è una proposta di vita, l’ostentazione di uno schema che si nutre della malattia del vivere; in lui c’è la capacità di attraversare il segno meno dell’esistenza, di rappresentarlo con toccante lucidità.

In lui c’è il bisogno di narrare cose grandi. Senza retorica, senza esasperazioni. Ma senza neppure svilimenti.

Troppo spesso sento dire: “Sei troppo giovane per interpretare questo testo, ti manca il vissuto”. Quanto è fallace pensare che il dolore sia qualcosa di quantitativamente misurabile? Tanto quanto è fallace pensare che se vivi tanti eventi dolorosi allora sei abilitato a raccontarli. L’artista è, invece, un eletto.

Il nostro diciannovenne ci ha dimostrato che l’arte è una forma totale di sperimentare il vuoto del vivere, un vuoto che appartiene a tutti, che è geneticamente umano. L’artista ha i mezzi per sublimarlo, per cogliere il denominatore comune e renderlo immediatamente evidente. La verità è lì, con le parole che avremmo voluto dire ma che non abbiamo mai saputo trovare.