Sanremo 2024 testi. Ritorna il PREMIO TESTO&ConTESTO assegnato ogni anno dal Prof di Latino, Davide Misiano, ai tre brani migliori e ai tre peggiori del Festival di Sanremo in fatto di scrittura. A lui la parola.
Non è certamente il Sanremo della parola. Non è un Festival che celebra i linguaggi o i messaggi. Forse l’unico messaggio che passa forte e chiaro, veicolato sia dalle canzoni in gara sia dalle scelte di intrattenimento, è il bisogno di disimpegno e di leggerezza ‘non pensosa’.
Così John Travolta non parla, ma ancheggia con Fiorello un ballo del qua qua per poi non firmare la liberatoria. Se si eccettua l’intervento in tarda serata di Teresa Mannino, sempre gradevole, le conduttrici rinunciano a monologhi o proclami. Solo Allevi ci costringe a riflettere, per di più servendosi di una comunicazione distintiva, che ci disarma nella sua essenzialità.
Le canzoni, poi, sono specchio fedele di un’Italia che, non necessariamente a torto, sceglie di essere danzereccia, frivola, sgravata dalla responsabilità di professare ideologie o ispirazioni. Di un’Italia dei tormentoni, tormentata dal bisogno di suoni sintetici e di parole sintetiche, campionate per dire il meno possibile o sempre la stessa cosa.
Non ci sono poetiche o stili. Solo Mahmood cerca di ampliare gli orizzonti lessicali, accogliendo e deformando la lingua contemporanea: il risultato è, però, un mistilinguismo, certo coraggioso e sperimentale, che a tratti ci lascia interdetti per la sua indecifrabilità.
Gli autori si ripetono, le parole di Petrella o di Ettorre sono ovunque. Gli autori si moltiplicano, sovraffollando i bollettini Siae: Amadeus, le sue cocò, o gli artisti che quest’anno sono investiti del ruolo di presentare i colleghi, arrivano a elencare persino 5 o 6 autori per uno solo testo.
E io me li immagino chiusi nello studio in collettivo autorale, a lanciare in aria una parola a testa. In taluni casi c’è da sospettare che la scelta pluralistica sia una strategia per non prendersi una responsabilità intera o per evitare il linciaggio pubblico. In altri ci si sorprende nel rilevare che 6 persone insieme non siano riuscite a fare di meglio!
Persino le interpreti per eccellenza, Mannoia e Bertè, che nella loro carriera hanno prestato voci e qualità espressive ad autori raffinati e audaci, hanno un po’ tradito le aspettative. La Mannoia, con la sua Mariposa, ha presentato una canzone identitaria, che di per sé ha un buon tessuto retorico e una costruzione poetica: ma quella carrellata anaforica di “Sono…”, con conseguente accumulo di immagini e citazioni, suona un po’ ripetitiva sulla bocca di Fiorella, che alcune cose ce le ha già dette a più riprese e rischia ora il tono della predicazione.
La Bertè, che avremmo voluto Pazza come sempre, si presenta invece solo pazza di sé, un po’ addolcita da un testo che è quasi una riconciliazione con sé stessa, una sorta di auto-perdono. Sempre iconica, va detto, ma meno affascinante di quando non era una signora e mandava a f****lo la luna. Vorremmo dirle: “Cara, Loredana. Non avevi e non hai nulla da farti perdonare, eccetto quella frase grottesca, forse la più grottesca del Festival, che ti disegna con il cuore spremuto come un dentifricio e nella testa fuochi d’artificio”. Espressionistica!
Insomma, un Sanremo di musiche tunz tunz e di testi click boom boom. Niente che ci lasci davvero con l’amore in bocca, solo tanto amaro.
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