Michele Bravi Storia del mio corpo Testo & Contesto di Davide Misiano
Confesso di non aver ascoltato per intero La geografia del buio di Michele Bravi. Ho un rapporto strano con il dolore: mi piace leggerlo e sublimarlo, mi piace estremizzarlo, mi piace convertirlo. Ma tendo a rifuggire due eccessi: la predicazione sul dolore, la contemplazione onanistica del dolore.
In parole semplici, non amo quando l’arte insiste sul dolore che salva (da ragazzino ho odiato la Lucia manzoniana e con lei l’idea che “Dio non turba mai la gioia de’ suoi figli se non per prepararne loro una più certa e più grande”) e non amo l’arte che ci canta il dolore dichiarando espressamente la sua funzione terapeutica.
Quando ascolto il dolore in versi, voglio un dolore totale. Quando canto il dolore, voglio farmi male e non guarire. Mi piace un dolore che si descrive, che non si giustifica, che è dolore e basta. Un dolore che si lascia osservare nella sua eroica totalità. Ecco perché ho saltato alcune tracce dell’album e ho invece ascoltato a più riprese Storia del mio corpo.
Alcune canzoni di Bravi mi piacciono più di Bravi, che, come ho già detto nell’analisi di La vita breve dei coriandoli (qui), rivela a tratti una tendenza omiletica, a mio avviso più evidente in sede di performance.
Ha una bella voce, ha dietro delle produzioni di qualità, ha dei contenuti da raccontare. Serve adesso la misura, l’equilibrio tra il dire e il non dire. D’altronde, un artista sa sempre lasciare al suo pubblico qualche spazio vuoto da riempire.
Proprio per questo oggi scelgo di analizzare una canzone che non è un singolo, che non passa per tutti i network, che non si candida neppure lontanamente a toccare il pubblico conquistato dalla più facile Mantieni il bacio. Analizzo un testo che lascia degli spazi vuoti, che non ci costringe ad ascoltare una sola storia, che è ben più di una testimonianza-confessione fatta al capezzale di sé stessi.
MICHELE BRAVI STORIA DEL MIO CORPO: TESTO & CONTESTO
Le prime strofe ci presentano subito il corpo come soggetto a una continua manipolazione da parte dell’anima.
“Il mio corpo ha una storia di paura addosso
E lo vedo chiaramente in ogni gesto
Come quando ho smesso di parlare
nell’esatto modo in cui si chiude un rubinetto
Il mio corpo ha una storia che si ripresenta
E lo ascolto come guardo una finestra aperta
L’ho lasciato fermo dentro al letto, fermo dentro
come in una busta di una lettera
E l’ho vestito tutti i giorni in un modo diverso
E poi mi sono abituato a viverci attraverso
E l’ho sentito urlare Vivimi, vivimi, vivimi
Ti prego, bruciami come fiammiferi”
Un gioco tra dentro e fuori che rovescia le tradizionali gerarchie. Non è il corpo una prigione dell’anima, ma è l’anima quasi una spietata custode del corpo. Lei non lo riconosce, lo sente estraneo, così lo manovra (“mi sono abituato a viverci attraverso”) e in qualche modo lo svuota, lo sacrifica: lo costringe a reiterare gesti, a rimanere fermo in un letto, a vestirsi ogni giorno in un modo diverso.
Lo guarda, lo ascolta senza curarsi delle sue ragioni (“E lo ascolto come guardo una finestra aperta”, bellissima questa similitudine impreziosita dalla sinestesia!). Si serve di lui per occultare sé stessa.
“La storia di paura” del corpo è una scelta dell’anima, un’anima che non sa riempire il suo corpo, che non lo sa abitare. Il grido del corpo, condannato all’assenza, è senza risposta:
“E l’ho sentito urlare Vivimi, vivimi, vivimi
Ti prego, bruciami come fiammiferi”.
L’armonia del brano, bella a mio avviso, sviluppa poi una salita e il testo asseconda la sospensione. Per un attimo quest’anima si accorge, sfiora la consapevolezza dell’errore.
È una dissociazione irrimediabile quella a cui si condanna: tenere quegli occhi spenti e persi significa non esistere, sentire la percezione di una vita fuori e non poterla assecondare. Svuotare il corpo è l’errore: non riempirlo, ma usarlo come schermo è il peccato.
Parla a un tu, Bravi, cui chiede aiuto, un gesto estremo che possa confermargli di poter ancora essere.
“Ho gli occhi così persi
Come buttare due monete per caso in mezzo a un prato
Piccoli movimenti
La vaga percezione di una vita fuori
Fammi capire se mi senti, mi vedi
Chiama forte il mio nome
Fai qualcosa di estremo
O ricommetto l’errore
Stare nascosto nel mio corpo
Stare nascosto
Stare nascosto nel mio corpo
Stare nascosto”
Intuiamo che l’autore stia parlando a qualcuno che possa squarciare il muro, che possa scuotere da questa alienazione. Eppure ci sarebbe piaciuto tanto che questo dialogo non si fosse mai proiettato al di fuori dell’io lirico: ci sarebbe piaciuto che fosse stato un colloquium esclusivo tra corpo e anima, tra dentro e fuori, tra sé e sé.
La seconda strofa, lo confesso, è per me una lama. Sento sulla mia pelle, ogni volta che lo ascolto, questo corpo sacrificato, tradito, ingannato, afflitto, spogliato. Quante storie questi versi possono contenere!
“Il mio corpo è una casa che mi porto addosso
Sopra i muri ha scritto quello che è successo
L’ho buttato sopra una poltrona senza cura
come fosse di un’altra persona
E l’ho spogliato e dato al vento come una bandiera
L’ho aperto e chiuso come avesse dietro una cerniera”
Mi piace il coraggio nel descrivere, con queste similitudini, persino un corpo stravissuto, usurato, sprecato come se non appartenesse al suo proprietario. Mi piace questa evoluzione dal corpo “lasciato fermo dentro al letto” della prima strofa al “corpo dato al vento come una bandiera”.
È in questa evoluzione una sintesi perfetta delle contraddizioni con cui viviamo il nostro corpo quando non accettiamo che ci appartenga, quando non sentiamo che ci appartenga. Ora lo frustriamo umiliando ogni suo intimo moto, ora lo gettiamo nella speranza di consumarlo. Ci è nemico perché non lo capiamo o non lo vogliamo, ma ci è addosso con le sue ferite. È assente perché consegnato all’inerzia, a un automatismo abulico; ci opprime con la sua presenza ingombrante a ricordarci le nostre più profonde incapacità.
Lo so, mi sono fermato, ho rimesso indietro il nastro e ho riascoltato questa strofa. E ho bisogno di sentirla di nuovo prima di lasciarmi andare al finale, che in fondo abbiamo già sentito: “Ho gli occhi così persi / Come buttare due monete per caso in mezzo a un prato / Piccoli movimenti” ecc. ecc.
SCRUTINIO FINALE
Ascoltatela anche voi di nuovo questa seconda strofa e ditemi se non c’è anche un po’ della vostra storia.
“Stare nascosto dentro il corpo” ripete più volte Bravi è l’errore, e sembrerebbe un’apologia dell’anima, un’affermazione del suo primato. E, invece, quando ascolto questo brano, sento solo il corpo, il bisogno di difendere, indagando la privazione cui spesso lo condanniamo, la verità del corpo. Il bisogno di ricordare la possibilità di essere felici nel corpo.
Non è la storia di un’anima questo pezzo, non è la storia di un vuoto che sentiamo dentro.
È la storia di un corpo, di un dolore che passa fuori, tra le cellule della nostra carne. La storia di questo bisogno che abbiamo di prendere confidenza con il nostro corpo, di amarlo, di accettarlo, di sentirlo aderente.
Un’esperienza con cui tutti, in qualche modo, abbiamo fatto i conti o facciamo ancora i conti.
È la storia di tutte le volte che abbiamo rifiutato la nostra pelle perché avevamo bisogno di trovare un colpevole. È la storia di tutte le volte che abbiamo “ferito” la nostra pelle per dare un canale al dolore. È la storia di tutte le volte che abbiamo abbandonato la nostra pelle perché troppo grande o troppo piccola, o perché non meritevole di un posto.